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The Eichmann Show

Regia di Paul Andrew Williams vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The Eichmann Show

di yume
7 stelle

Cos’ha di buono questo film?Molto, e non solo quel processo di cui passano riprese originali preziose completate da repertorio fotografico e ricostruzioni della vicenda che coinvolsero la troupe di Hurwitz e il mondo quasi intero.

locandina

The Eichmann Show (2015): locandina

Girato nel 2015 il film torna al 1961, un anno non qualsiasi.

Molto doveva ancora accadere, all’inizio degli anni sessanta cominciavano alla grande i preparativi degli scenari successivi e i sessanta anni che seguirono marciarono su quelle premesse.

Tutto, allora, poteva sembrare molto “banale”.

La Storia c’insegna che nulla lo è.

Quell’anno fu ghiotto di eventi memorabili: Cuba e Fidel, Gagarin, Eichmann.

Bisognava esserci e far vedere al mondo cosa succedeva, lo spazio non aveva più barriere, ora si poteva, la radio non bastava più.

Un network lungimirante come la BBC affidò al produttore Milton Fruchtman l’impresa di volare a Tel Aviv e registrare il processo.

Eichmann, l’SS Obersturmbannfurher responsabile del traffico ferroviario che trasportava gli ebrei nei campi di concentramento, era stato preso in Argentina l’anno prima con abile mossa dagli agenti del Mossad. Finalmente si svolgeva, per la prima volta in Israele, il processo ad un criminale nazista, un evento troppo memorabile, bisognava esserci.

Serviva un regista, il migliore, e Fruchtman chiamò Leo  Hurwitz, inserito nella lista nera del maccartismo.

Le difficoltà furono molte, oggi sappiamo che l’operazione andò a buon fine, i due e la famiglia di Fruchmann non ci lasciarono la pelle, come previsto da lettere minatorie e tentativi di assalto alla sede televisiva, gli ostacoli ideologici e burocratici frapposti da più parti, compreso da israeliani di ogni ordine e grado, furono superati, e le cineprese invisibili nascoste nei muri costruiti in tre giorni puntarono i loro obiettivi sul procuratore Hausner e la sua tremenda arringa, sui 112 testimoni sopravvissuti allo sterminio e su lui, Eichmann, chiuso in una gabbia di vetro, impassibile con quegli spessi occhiali da ragioniere miope e quella bocca serrata con l’angolo sinistro contratto e spinto in alto, una smorfia di disprezzo, o forse solo un tic.

Un film necessario? Certo, possiamo anche definirlo ipnotico, esaurendo così abusate aggettivazioni. In realtà non ci sono parole quando è di scena l’orrore, quello che la Arendt definì “banale”.

Il nostro regista non ci sta, non riesce a convincersi che quell’ometto magro e impenetrabile, seduto lì in ascolto con la sua cuffia e quel ghigno strano, sia così banale, così capace di impassibilità totale.

Dalla cabina di regia è lui a decidere il movimento di macchina, ed è come se fosse ipnotizzato da Eichmann, se potesse punterebbe una macchina fissa solo su di lui.

Ma non può, Fruchtmann scalpita, è lui che mette i soldi, è lui il produttore, lo show ha regole ben precise, la gente non può annoiarsi, e poi ci sono Fidel e Gagarin che fanno concorrenza.

 

Anthony LaPaglia, Martin Freeman

The Eichmann Show (2015): Anthony LaPaglia, Martin Freeman

Cos’ha di buono questo film?

 Molto, e non solo quel processo di cui passano riprese originali preziose completate da repertorio fotografico e ricostruzioni della vicenda che coinvolsero la troupe di Hurwitz e il mondo quasi intero.

Fatti salvi alcuni passaggi american style che cedono ad un lirismo sentimentale di cui si farebbe volentieri a meno o al gusto della battuta facile, questo film costringe a riflessioni.

Almeno su due problemi.

Il primo è che ancora una volta dobbiamo chiederci se fu così “banale” quell’uomo e quel male da lui rappresentato.

Pur comprendendo cosa intendesse la Arendt con quella definizione, continuiamo a non credere che il male possa passare per “banale”, mai, in nessun momento e in nessuna forma si manifesti.

E crediamo che Claude Lanzmann l’abbia dimostrato con argomentazioni inconfutabili e definitive, chi non lo ricordi può sempre ripercorrere il suo lavoro di una vita intera sulla Shoah e derivati.

//www.filmtv.it/post/18091/shoah-parte-prima/#rfr:none

 

Il secondo argomento di riflessione riguarda le dinamiche della comunicazione televisiva.

Nel 1961 si era agli albori e molta acqua è passata sotto i ponti, molto è stato scritto, detto, dibattuto.

Forse è un caso, o forse no, il titolo del film contiene un messaggio,The Eichmann show.

Show è “mostrare”, implica un’attività della vista collegata al cervello.

In quel processo, ripreso in tutta la sua cronaca giornaliera, un criminale nazista si mostrò, dei sopravvissuti furono visti, poterono parlare e nessuno girò loro le spalle accusandoli di menzogna come avveniva, il mondo collegato dai cavi televisivi (non il mondo intero, dunque) potè vedere.

Non convinti, certo, che l’atto del vedere possa esaurire una ricerca di verità, pensiamo che comunque sia molto importante e gratificante poterlo fare.

L’occhio di Hurwitz chiede delle risposte, lui ha mestiere e competenze per cercarle, ed Eichmann ripreso dal suo teleobiettivo non sembra così “banale”.

Sappiamo che la parola show, in tempi successivi, ha subito notevoli alterazioni dal suo significato base, oggi la colleghiamo a spettacolo, intrattenimento, e se pensiamo alla televisione oggi vediamo quali abissi la separino da allora, nel bene e, soprattutto, nel male.

Ma allora era quello, e per la prima volta quel “mostrare” portava alla luce verità inconfessabili, mostruose. Avevano apparenza di banalità? No, se guardare Eichmann dà i brividi, se ascoltare quei racconti crea reazioni varie fra i presenti, e non certo di indifferenza.

 Cosa resta, alla fine della visione?

Non certo il ricordo di Eichmann su cui tanto si è detto e capito e non serve altro.

Resta il rammarico di un mestiere che ha imboccato strade lontane dalle sue premesse e per capire quali basta una scena, a mezz’ora dalla fine, nel pieno del processo.

 

Hurwitz, subito prima che un testimone crollasse a terra colpito da collasso, aveva ordinato all’operatore “Sta’ stretto su Eichmann”.

Era la sua frase più frequente, fin dall’inizio.

Così, però, ha perso così “il bello della diretta” e Fruchtmann non glielo perdona:

Quello era un momento di spicco, Leo, argomento di discussione, dramma umano

Era un momento di vita molto sofferto, non un cazzo di spettacolo in tv” ribatte Leo.

Era un cazzo di spettacolo in tv “ urla Fruchtman “ mi dispiace se non si accorda con la tua sensibilità, ma finchè siamo al soldo israeliano quello è, il tuo fottutissimo lavoro è riprendere quello che succede in quell’aula, non condurre una tua personale indagine sulla natura del male”.

“Perché non posso fare entrambe?” chiede Hurwitz.

Perché una è di intralcio all’altra… io ti pago lo stipendio, caro il mio Hurwitz”.

 

Un brevissimo dialogo di portata enorme sulle conseguenze future, inutile dirlo.

 

 

 

www.paoladigiuseppe.it

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