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Lo chiamavano Jeeg Robot

Regia di Gabriele Mainetti vedi scheda film

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La recensione su Lo chiamavano Jeeg Robot

di NausicaNellaValleDelVento
8 stelle

Jeeg va , cuore e acciaio, cuore di un ragazzo che senza paura sempre lotterà Se dal passato arriverà una nemica civiltà noi restiamo tutti con te, perché tu, tu sei Jeeg perché tu, tu sei Jeeg!

Jeeg Robot: cuore e acciaio del cinema italiano

 

Se si entra in sala per Lo chiamavano Jeeg Robot (Italia, 2015) con quella curiosità un po’ scettica che nutre la visione delle opere prime di cui per giunta, per questa di Gabriele Mainetti, si imbastiscono etichette di “comics-movie all’italiana”, e poi ci si ritrova incollati allo schermo non di fronte il film, non ancora, ma prima, nella pubblicità che non ci perdiamo neanche per prendere i popcorn, rapiti dal trailer mozzafiato di Batman v Superman. Down of Justice, l’ultimo fanta-action del visionario Zack Snyder, beh neanche a farlo apposta – e scusaci Mainetti per non averti preso troppo sul serio – ma quella formicolante curiosità iniziale intiepidisce accanto all’odore ora invidiato dei pop corn del vicino. Nella già consapevolezza di essere troppo piccoli già di fronte a Batman, già di fronte a Superman. Figuriamoci di fronte a tutti due, insieme poi.

Poi, la prima scena del film, quella in cui avevamo riposto le ultime speranze iniziali prima di scollarci dallo schermo per appiccicarci al vetro dei popcorn, concedendo quindi a quella specificità tutta italiana, quel modo tanto poco spettacolare quanto tanto intenso di raccontare le nostre storie, la possibilità di essere immensi, nella miniatura dei nostri film a effetto senza effetti speciali. E invece, in quella prima scena, un inseguimento. E allora. Conveniva ingollare ceste di pop corn da digerire durante una visione confusa e nauseabonda piuttosto che dover smaltire poi l’insaziabile umiliazione: è mai possibile che proprio noi italiani, che film d’azione non ne abbiamo mai fatto, che vomitiamo bile di stima sull’epos tenendocene cautelatamente alla larga, noi che non abbiamo conosciuto la grande forma (d’azione) ma nemmeno la piccola, che nei duali ci imbattiamo solo quando sono corpo a corpo tra uomo e donna nei nostri stucchevoli melodramma strappalacrime, proprio noi, proprio tu, innocente e sprovveduto esordiente regista italiano ti butti nella tua opera prima con un inseguimento? Bello lungo poi…di quelli in cui la caccia all’uomo la lancia un bel drone sulla capitale che poi precipita sul personaggio stagliandoglisi addosso davanti e dietro, di lato. E mentre noi, forse per l’odore caldo, forse per qualcosa che già è in questa prima scena, tratteniamo il fiato, lui, l’inseguito, il nostro protagonista, il nostro eroe che l’abbiamo già capito che è un eroe dei poveri che sta scappando perché ha rubato qualcosa da portare ai poveri cioè a lui, ansima. Il suo respiro affannato e nient’altro, prima delle sirene della polizia, tanto che ci sembra già, quest’incontro del fuggitivo sudato Claudio Santamaria con la mdp un perfetto corrispettivo filmico di quella “lunga sequenza silenziosa” che quando il secolo scorso apriva gli occhi il fumetto giapponese magnificamente disegnava.

Cercando di non farci suggestionare troppo, confondendoci tra la grafica e le corse in stile manga e quel nero delle nostre acque in cui il protagonista si tuffa acquisendo i suoi super poteri da super eroe americano, capiamo subito che se è vero che in Lo chiamavano Jeeg Robot i riferimenti sono tanti – dal fumetto giapponese che diventa pretesto cinematografico al cinecomic supereroistico americano che si fa forma da, con sapiente umiltà, deridere – è anche vero che quello di Mainetti è uno di quei rari film che ha la forza di somigliare a tutto senza essere uguale a niente. Neanche a tanto cinema italiano degli ultimi tempi con cui, ben al di là di una forma somigliante, sembra condividere qualche forma identitaria. Un luogo innanzitutto. Quello della borgata romana con la sua umanità sporca di immondizia e di coscienze, ferita da coltelli e valori appesi nei cimiteri, maleodorante di periferia mangiata dalla droga e dalla malavita di una capitale che invece rimane sempre ai bordi dell’inquadratura e della storia dei suoi protagonisti, stagliando sullo sfondo il fasto delle cupole e del Colosseo che incorniciano racconti di sangue senza lacrime e senza espiazione. C’è qualcosa dunque che sembra sollevarsi dalle tinte nere di Suburra (Sollima, 2015) per rivolgersi agli scenari pasoliniani di Non essere cattivo (Caligari, 2015) fino ad arrivare a chiedere alla brutta gente di Mainetti cosa c’è, dunque, in questo cinema – italiano per vocazione anche quando indossa maschere da super eroe hollywoodiano – che sembra aver preferito il sub-romano al degrado del filone napoletano di qualche tempo prima da Gomorra (Garrone, 2008) in poi. Poi. Perché se il dunque di questo cinema non è qui da farsi, il poi - di Mainetti regista e di Guaglianone e Marchionni sceneggiatori – è facilmente individuabile. È uno scarto coraggioso quello con cui alla stessa Roma, all’identica povertà senza identità, allo stesso abisso morale e nella stessa fossa umana di Sollima e Caligari, l’audace Lo chiamavano Jeeg Robot risponde non meglio o peggio, non profilando prosaiche soluzioni, bensì dandoci un eroe. Scacco. Quando poteva essere un totale disastro. Un imbarazzante tentativo di cucirci addosso qualcosa che non ci appartiene. E invece la maschera che la dolce e sensuale Alessia (Ilenia Pastorelli) cuce amorevolmente a mano al nostro eroe, è una maschera tutta italiana, ricamata con quella lente comico-grottesca che rende elegante la nostra migliore commedia all’italiana. Un’imagerie fantastica certo che qui guarda esplicitamente ad un personaggio di finzione, ma anche un grottesco a tinte nere che strizzando l’occhio al maestro Ferreri predilige l’attenzione macabra per il corpo ridotto a brandelli: il dito che salta dal piede di Enzo e che diventa quasi un feticcio, un oggetto d’amore che Alessia restituisce al corpo goffo del nostro super eroe, consegnando anche se stessa al folle tentativo di attaccare in due un mondo che non sta più in piedi neanche col nastro adesivo.

Più che il fascino da super-eroe, Enzo ha quindi la pelle scorticata da “eroe de’ noantri” non solo per il romanaccio che usa sul suo pavimento cosparso di dvd porno mentre rompe le porte del mondo vuoto, fuori, e sbatte quelle del frigo pieno, dentro, di vasetti e vasetti di yogurt manco fossero spinaci di Braccio di Ferro, ma per quel tragitto interiore che percorre emulando i personaggi romanzeschi piuttosto che le vignette dei fumetti, dunque con il sapore tutto italiano di un’evoluzione che sembra più una conversione: diventare super umano imparando ad essere umano. Dalla mancanza all’essere, indossando una maschera, quella dell’ “amico di nessuno”, del duro senza sentimenti a cui la gente fa schifo per poi accettare quella del personaggio, di Hiroshi, protagonista del manga giapponese di cui compra l’intera serie-tv, fino a maturare, lentamente, quella della persona. Umanizzandosi e scoprendosi, per nient’altro che per questo, un eroe. Forte quanto basta per permettere alla sua principessa un po’ matta di fare un giro su una ruota panoramica spenta e fermarsi in alto a metà cielo per guardare il mondo farsi piccolo e con esso la paura, gigantesca, del “giorno delle tenebre”, quel giorno qualunque in cui anche oggi papà torna e si abbassa la cerniera. Nel diniego e nel ritiro dal mondo in cui Alessia si trincera aspettando l’eroe d’acciaio che fa battere il suo cuore e che quando arriva, deve prima passare sul suo corpo già abusato, in un rapporto sessuale maldestro che la lascia scomposta nel suo vestito da principessa mentre Enzo, che ha già i superpoteri ma che non è ancora un eroe, si ritrova nudo di fronte alla miseria antica della sua esistenza e al desiderio, nuovo, di volare in alto, più della ruota, più leggero, come un palloncino. E arrivare dove l’amore può. Con o senza super poteri.

Poi, purtroppo, la storia continua. Per fortuna con Fabio Cannizzaro detto “lo Zingaro”, quel talento italiano di Luca Marinelli che sempre rischia di essere un tantino sopra, sopra le righe rispetto alla sua parte, sopra gli altri personaggi con il suo carisma e che pur si mantiene sempre al di qua di qualunque eccesso. È lui l’anti-eroe, un rabbioso cane in gabbia che non sa come aggiudicarsi le 40mila visualizzazioni su youtube di cui gode l’avversario, consolandosi con le sue performance in stile anni ‘80 o nel ricordo sbiadito di un poster di “Buona domenica”, e “non del Grande Fratello” a cui, oggi dimenticato da tutti, aveva un tempo partecipato. Anche lui un anti-eroe moderno a cui il colpo, quello grosso, interessa per avere Roma inginocchiata ai suoi piedi o, meglio ancora, incollata allo schermo. Con un bel tuffo nel Tevere pure “lo Zingaro” acquisisce i super poteri e quando ricompare con le stesse mani nere sullo stesso bordo della balaustra che aveva reso Enzo un eroe a inizio film, avremmo voluto vedere comparire, rigorosamente in caratteri giapponesi, la scritta “the end”. E non certo perché il film, equilibrato com’è anche nelle emozioni, ci aveva annoiato ma, al contrario, per poter tornare al cinema tra qualche tempo e assistere alla rivincita del male sul bene, allo scontro finale Roma-Lazio, alle capocciate sui muri della lunga lista di stuntman a cui, forse più di tutti, si deve il merito di aver creduto al genio del giovane Mainetti. Avremmo si voluto un sequel, come Hollywood insegna e come a casa – Lo chiamavano Jeeg Robot dimostra – si reinventa sperimentando ricette nuove dai sapori interessanti. Perché se le nostre acque oggi sono inquinate da misteriose sostanze radioattive, se i padri senza misteri violentano ancora le figlie, se il corpo non è più sacro e nemmeno veicolo di sangue e merda ma di droga, se si è disposti a morire o a rendere morti non già più per la droga persa e nemmeno per l’iphone che è bianco quando doveva essere nero, ma perché se hai 40mila visualizzazioni e sei un eroe, vuol dire che se non le hai non lo sei, beh, tradizione o no, era ora che un supereroe venisse a salvare anche noi e il nostro cinema italiano. Un eroe vero in carne, ferita ed ossa che con acciaio e cuore lotta per essere piuttosto che per diventare. Così mentre Di Caprio solleva orgoglioso la sua bella statuetta che ha sconfitto l’orso finto, Santamaria indossa la sua maschera buffa e si butta sulla città. Quella vera, senza effetti speciali. Quella Roma così com’è. Brutta, sporca e cattiva.

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