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Lo chiamavano Jeeg Robot

Regia di Gabriele Mainetti vedi scheda film

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La recensione su Lo chiamavano Jeeg Robot

di giurista81
7 stelle

 

Prodotto con un budget minimale, sotto ai due milioni di euro, dalla neonata Goon Films di Mainetti e dalla Rai Cinema. Una somma bassa per un fantasy con venature horror (non perché spaventi, piuttosto per il tocco gore), ma che diviene importante se si considera che parte dei capitali arrivano dal regista stesso, costretto a scommettere di tasca propria pur essendo, a tutti gli effetti, un debuttante. Non più giovanissimo, ormai prossimo a spegnere quaranta candeline sulla torta, ma costretto, anche per questo, ad azzardare il grande passo puntando sul proprio talento. Attore prima di belle speranze, con ruoli di rilievo in commedie, comici e serial televisivi, poi regista apprezzato nell'ambiente, meno dal pubblico, grazie a corti comeTiger Boy (2012), premiato con il Nastro d'Argento e inserito nel lotto dei cortometraggi da cui stilare le nomination all'Oscar, o il meno qualitativo Basette(2008) comunque nominato per il Nastro d'Argento. Esperienze, queste, precedute da altri cortometraggi per un arco temporale di oltre dodici anni, racimolando soldi con interpretazioni attoriali e una dozzina di regie di episodi di famose serie televisive. Tempo utile a crescere, ma anche sperperio di energie pazzesco se si considera che un tempo, a quarant'anni, certi registi italiani avevano già plasmato buona parte della loro filmografia.
Appassionato del mondo dei manga e dei cartoon, Mainetti persevera nel suo cammino concependo col suo soggettista di fiducia la scheletratura de Lo Chiamavano Jeeg Robot, forse aiutato dal buon esito di Tiger Boy. Ancora una volta, riprende l'idea iniziale di un classico dei cartoni giapponesi (alla fine comparirà la maschera a maglia di Jeeg Robot), come già avvenuto in Tiger Boy, dove vi era un protagonista bambino fissato su un wrestler romano dal volto celato da una maschera di tigre (evidenti riferimenti a L'Uomo Tigre). Così Nicola Guaglianone, questo il nome del soggettista, un romano classe 1973 cresciuto e formatosi alla corte di Mainetti ma anche di alcuni serial tv, mantiene l'impronta legata all'infanzia e al mondo perduto degli anni '80 inserendola in un contesto da fantasy stile Marvel, ma con toni e personaggi alla Monnezza. Così la storia viene ambientata a Roma, nel mondo delinquenziale e coatto che ricorda un po' i film italiani anni '70 e non disdegna il ricorso alla violenza e allo squallido (le scenografie sono squallidissime, a parte una sequenza in un pub che richiama un po' quella di Arriverderci Amore Ciao di Soavi), riuscendo tuttavia a donare a tale contesto un tocco poetico che, in più punti, sfiora le corde della sensibilità in chi guarda per poi cambiare registro e passare dalla poesia allo squallore (voluto) e viceversa. Un effetto assimilabile a un mix di dolcezza e crudeltà che rendono molto particolare questa pellicola, impregnandola di un sottostrato di originalità che, in tempo di remake e copie, è oro colato. Merito soprattutto della caratterizzazione dei personaggi, a cui mette mano anche Menotti, al secolo Roberto Marchionni, conosciuto fumettista sotto contratto della Black Velvet e che arriva dal serial 7 Vite, probabilmente su suggerimento dello stesso Guaglianone che in quel serial ha anch'esso messo mano.

 

prosegue: http://giurista81.blogspot.it/2016/03/recensioni-cinematografiche-lo.html

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