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Fai bei sogni

Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film

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La recensione su Fai bei sogni

di ed wood
8 stelle

Un Bellocchio ritrovato. Dopo l’ordinaria amministrazione di “Bella Addormentata” e il grottesco involontario di “Sangue del mio sangue”, due tentativi di fare i conti con il presente del nostro Paese, il piacentino si appoggia ad una fonte letteraria per ripiegare su di una vicenda intima, che gli consente di porre un freno alla dimensione politico-allegorica per condensare invece la crème delle sue tematiche ricorrenti: il rapporto controverso con le figure genitoriali; la Fede messa in discussione e l’istituzione religiosa presa a schiaffi; l’oscurantismo del Potere (qualsiasi potere); la rabbia e la follia; il giornalismo (ricordate “Sbatti il mostro in prima pagina”?); soprattutto, l’indagine di quel labile confine fra egoismo ed altruismo che regola i rapporti con l’altro, infine il “revisionismo affettivo”. Lo fa con un carattere ed una personalità ritrovate, sulla scorta del suo inconfondibile mix fra lucida psicologia e surrealismo psicanalitico, vivida reminiscenza e fantasia visionaria (esemplare, in questo senso, il dolce e straziante simbolismo della sequenza finale, uno dei momenti più alti della recente carriera del cineasta).

 

Bellocchio riesce alla grande laddove rappresenta, per sguardi ed allusioni, il complesso di Edipo (bellissime in particolare due sequenze, misurate nella loro ambiguità fra tenerezza e desiderio: quella della madre che canta svampita una canzone napoletana mentre lo sguardo in controcampo del piccolo Massimo è un concentrato di meraviglia e sbigottimento; e quella con la milf Emmanuelle Devos mentre gioca alla lotta col figlio viziato, altra trasparente raffigurazione edipica), ma fallisce quando vuole fare l’inverso, ossia mostrare le titubanze di Massimo adulto al cospetto col genere femminile, visto sempre come eminentemente materno, alla Marco Ferreri (in questo senso, è sprecato il personaggio della dottoressa Berenice Bejo).

 

Un film con momenti di grazia e commozione, alternati ad altri più opachi. Geniale l’atto mancato di freudiana memoria, comprensibile solo nel finale, di Massimo bambino che fa cadere volutamente una statua dal quinto piano. Significativo il suo tifo per il Toro, squadra maledetta per eccellenza, simbolo di lutto, shock e rimpianto (la strage di Superga sta al calcio come la perdita della madre sta all’orfano). Inutile il personaggio di Gifuni, una specie di novello “conte Bulla”, mentre la mamma, silenziosa, pazza e misteriosa, è una versione calda della madre pia e distante di “L’ora di religione”: stesso sorriso, ma con più vitalismo. Discutibile ma interessante la parte ambientata a Sarajevo: Massimo è un fotografo di guerra e si trova a riprendere l’orrore di un bimbo indifferente al cadavere dissanguato di una madre, un altro momento dove il racconto si scioglie nell’onirismo.

 

Eccellenti le scenografie, ma soprattutto funzionali a stabilire una dialettica fra presente e passato, privato e pubblico, scenario e racconto: non c’è nessun gratuito effetto “vintage”, non ci sono anacronismi e forzature, ma il supporto necessario alla definizione dell’umore e della psiche di Massimo. Debole l’interpretazione del padre (Guido Caprino), bravo Herlitzka in un composto cameo, eccellente il bambino (farà strada, vedrete), convincente la giovane madre Barbara Ronchi; ma soprattutto, ad essere commovente nel suo dolore trattenuto, nel suo dignitoso magone è Valerio Mastandrea, alla prova migliore della sua carriera, tutta misura, sottrazione ed amarezza implosa.

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