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La pazza gioia

Regia di Paolo Virzì vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La pazza gioia

di viacristallini99
8 stelle

Dopo "Il capitale umano", Virzì ritorna sulla via della ricerca di un dialogo tra la ricca borghesia, con i suoi valori, e la società “diversa”. E ci riprova ricorrendo all’espediente della follia. E’ in questa dimensione della mente che egli trova la credibilità di un avvicinamento.

Virzì ritorna a dirigere un film ambientato nella ricca borghesia del Nord.  Con “Capitale umano” aveva messo in luce lo scudo di indifferenza e disumanità con cui essa si difende dal manipolo di disgraziati - alla ricerca di un riscatto dai propri fallimenti -  che quotidianamente l’avvicina.  Tentativi che li espone, invece, a nuove umiliazioni e sfruttamento.  Si scorgeva, però, in quel film, un approccio al  dialogo tra la fredda opulenza ed un mondo colto e sensibile di persone normali.  Mi riferisco, cioè, all’incontro sentimentale tra la ricca signora ed il professore.  Quel personaggio seducente e dotato di apparente sensibilità, non a caso interpretato anche lì da una splendida Valeria Bruni Tedeschi,  conferisce, all’attrazione tra i due,  l’illusione di una conversione morale della donna, capace di riscattarla dalla colpa dell’appartenenza a quel mondo ed indurla a farsi prendere dall’amore e fuggire con l’innamorato.  Ma,  ciò non avviene.  Lo spettatore dovrà accettare l’ineludibile barriera tra i due e riconoscere che quell’unione comporterebbe la perdita di lussi e privilegi a cui la ricca signora non potrebbe mai rinunciare.  Vi chiederete, ora, perché l’accostamento tra questi due film.  Perché Virzì ci riprova.  Ritorna sulla via della ricerca di un dialogo tra la ricca borghesia, con i suoi valori, e la società “diversa”.  E ci riprova ricorrendo all’espediente della follia.  E’ in questa dimensione della mente che egli trova la credibilità di un avvicinamento: la ricca signora -e la giovane esponente della società cosiddetta ’”alternativa”- questa volta non si lasciano ed affrontano insieme, dandosi reciproco conforto e sostegno, il disagio della malattia e la speranza di una nuova vita che possa essere il più normale possibile.

Analisi condotta con sensibilità e graduale sviluppo degli aspetti complessi della personalità delle due donne.  Il film, come nella buona tradizione cinematografica italiana (a differenza di quello americano, che spesso predilige la cronaca dei fatti e la spettacolarizzazione dell’azione), cerca di non lasciare zone d’ombra nella caratterizzazione dei personaggi.  Senza omissioni, segue il crescere delle emozioni, affinché esse arrivino in modo credibile, completo e razionale alla mente dello spettatore.  E’ uno degli aspetti positivi di questo film che, a quanto pare, si è addirittura servito di esperti psicologi (appare scritto nelle didascalie finali) per rendere i personaggi quanto più vicini al tipo di malattia della mente di cui sono affetti, senza per questo avere la pretesa di un’opera scientifica.

Analisi, questa, troppo semplicistica, che non coglie le peculiarità di questa pellicola.  Innanzitutto, non ci dice in che modo la coppia  Beatrice / Donatella (rispettivamente Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti) si differenzia dalla più nota coppia “Thelma e Louise” (Geena Davis e Susan Sarandon) a cui va naturalmente il pensiero dello spettatore.  Entrambe le coppie fuggono da qualcosa: la casa di cura per le prime, la noiosa vita di provincia per le seconde. In entrambi i casi c’è un personaggio che trascina l’altro  fino a coinvolgerlo emotivamente verso un’accettazione completa di quell’avventura. Mentre, però, le due americane fuggono per un desiderio di trasgressione e di sfida verso la società a cui sentono di non appartenere più, Beatrice e Donatella evadono da un luogo che sentono come prigione fisica per ricongiungersi, al contrario, alla società che vive all’esterno di quelle mura ed a cui credono illusoriamente di appartenere ancora.  La “gioia” di Thelma e Luise è vera e razionale ma porterà alla morte; quella di Beatrice e Donatella,  frutto di una mente malata, appartiene ad un mondo irreale, ma le porterà, invece alla scoperta di una nuova e migliore condizione di vita.  In entrambi i casi, però, essa è fonte di sensazioni intense che le condurrà alla scoperta dell’una verso l’altra.  La lunatica Beatrice, pur nell’illusione di vivere una realtà a cui più non appartiene, si porta dietro, nella fuga, i comportamenti di una classe borghese emancipata, autoritaria e risoluta.  Allo stesso tempo, però, esprime un carattere gioioso, curioso e sensibile che probabilmente avrebbe continuato ad offrire al mondo reale se non fosse stata sedotta da un truffatore che l’aveva spinta verso la rovina finanziaria.  La mente ne aveva pagato le conseguenze ed ora vagava nell’illusione di appartenere ancora a quel mondo opulento e di potere.  Valeria Bruni Tedeschi interpreta con naturalezza ed impegno il ruolo della sedicente contessa svampita ed instabile nel comportamento.  Con un’espressione molto colorita, un suo detrattore ha scritto che non parla ma “pigola”.  In verità, sulla voce, l’attrice gioca gran parte delle sue carte.  Ma non è la sola.  I registi, d’altra parte, sono sempre più spesso alla ricerca di personaggi, invece che di attori.  E, così, l’attore corre il rischio di essere legato a quel personaggio per tutta la sua carriera senza avere l’opportunità di esprimere altro.   Tuttavia, a parte le caratteristiche di “pigolatrice doc”, ritengo che l’attrice abbia saputo coniugare esuberanza, sensibilità ed insensatezza per rendere,  al meglio,  la “pazza gioia” a cui era stata assegnata.   E Donatella?  La perdita dell’affidamento del figlio, per aver tentato di uccidersi insieme a lui, la spinge verso continui atti di autolesionismo e verso il rifiuto di ogni rapporto umano.  Beatrice viene presa dalla fragilità di quell’essere minuto e apparentemente inavvicinabile (molto ben interpretato dalla Ramazzotti) e, proprio grazie allo sdoppiamento della personalità a cui tende, si identifica dapprima in un medico e poi nella persona che si prenderà cura di lei, trascinandola nella fuga con entusiasmo e caparbietà.  La condurrà, così, alla scoperta di una nuova visione della vita che le farà accettare la batosta;  senza perdere, tuttavia, la speranza del riscatto attraverso le cure della mente.  Entrambe, alla fine, ritorneranno nella struttura dalla quale erano fuggite e  che le accoglie con rinnovato amore e benevolenza.  Quella fuga aveva contribuito, più delle medicine, alla realizzazione di un benefico percorso terapeutico che aveva giovato ad entrambe. 

Il film è, anche, un’ode a tutti coloro che si dedicano a queste persone e che, grazie al loro operato,  trasformano il concetto di manicomio o quello molto più soft di “casa di cura” in quello di  “casa di (amorevole) accoglienza”.

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