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L'impiccagione

Regia di Nagisa Oshima vedi scheda film

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La recensione su L'impiccagione

di spopola
9 stelle

Non  è possibile (o per lo meno a me risulta molto difficile il lavoro e incerto il risultato) fare una  analisi  davvero completa, circostanziata ed esaustiva  del cinema di un autore complesso e problematico come Oshima, tirare le somme con esauriente competenza sul suo intero, straordinario percorso artistico: più facile la valutazione dei  magnifici risultati raggiunti negli  anni della maturità, perché qui il quadro è abbastanza definito anche nei particolari, da consentirci di misurare davvero la grandezza assoluta del Maestro, mentre invece gli esordi presentano ancora troppi “buchi” che nemmeno il mercato dell’home video ha riempito totalmente per avere “certezze assolute”. Magari chi è bravo a navigare e scaricare dalla rete, avrà a disposizione un materiale più consistente per tamponare le troppe falle esistenti, rispetto a quello al quale posso invece attingere io che non sono poi così abile ad utilizzare le possibilità  offerte da internet in questo campo,  e devo accontentarmi delle “ufficialità” del mercato, ma credo in ogni caso di poter affermare senza tema di essere smentito, soprattutto riferendomi agli esordi e utilizzando semplicemente la base delle mie conoscenze dirette e dei ricordi di ciò che ho visto in anni ormai lontani, che in assoluto fra i tanti  pregi del suo lavoro in progress, ci sia da priorizzare proprio la peculiare, importantissima caratteristica dell’ecletticità creativa, che lo ha portato ad esprimersi con modalità e approcci anche molto differenziati fra loro, in piena sintonia con i tempi ed i fermenti internazionali così produttivamente innovativi nella seconda metà del novecento, attraversata da geniali “rinnovatori” delle forme ai quali si è affiancato anche il suo prepotente talento per rivoluzionare dalle radici il senso stesso del “fare” cinema.

Se la consacrazione internazionale e definitiva di Oshima nell’olimpo dei “grandi”  è avvenuta con il suo capolavoro assoluto del 1971 Gishiki (La cerimonia), posso però ben affermare con assoluta cognizione di causa, che la prima opera che ha richiamato in Europa l’attenzione sul suo nome (e ancora una volta grazie ai francesi e al meritorio lavoro della rivista Positif) è stata, ben tre anni prima di quella entusiasmante scoperta, proprio L’impiccagione (Koshihei in originale), un altro dei sui più autorevoli risultati, ma che si presenta realizzato (stilisticamente parlando) con moduli di rappresentazione davvero molto divergenti da quelli che poi si definiranno attraverso i suoi titoli più conosciuti e celebrati.

Secondo Cinema Nuovo, “una pellicola che sembra in apparenza voler concludere un fase preparatoria anche formativa, caratterizzata da un solido impegno tematico ma anche da una diffusa accessibilità (da parte di un pubblico più vasto e soprattutto “politicamente” impegnato) (…) di un autore che del cinema giapponese tradizionale mantiene solo a tratti la purezza figurativa e il ritmo lento, per il resto avendo assorbito non pochi moduli tipicamente europei, in specie da Godard, Bergman e Antonioni”.

In effetti se ci limitassimo a valutare questa sua opera più giovanile (definita da Fernaldo Di Giammatteo un grido di rivolta  contro ogni potere, un insulto ai sacri principi dell’ordine, della legge e delle sue ipocrisie, un divertimento macabro  che è anche una fiaba allucinata e  della quale tenterò di parlar anche io un po’ meglio e in maniera più approfondita più sotto) arrivando poi direttamente a La cerimonia, saltando a piè pari ciò che c’è stato nel mezzo, si potrebbe davvero ipotizzare un cambiamento radicale e repentino di “costruzione” e di pensiero, persino di “concezione artistica” che invece credo si possa meglio “raccontare”  come un avvicinamento progressivo a una definitiva maturazione della propria idea di cinema, se si analizza invece proprio il contrappeso fornito da altri due titoli che sono i tasselli a noi mancanti di quella che vorrei definire come “la sua catena evolutiva”, due lavori che, seppure adesso non vengono nemmeno citati dal Mereghetti e dal Morandini, né sono tantomeno presenti sul database di questo sito, sono però transitati a suo tempo sui nostri schermi (io li ho visti, altrimenti non potrei parlarne) e che rendono leggermente più chiara la capacità anche “diversificativa” della sua arte tutt’altro che staticamente “univoca”.

Ritornando a L’impiccagione, ci troviamo senza ombra di dubbio di fronte a un’opera di impianto  tradizionale (che può ancor più sorprendere proprio per questo, visti gli approdi dei capolavori della maturità) realizzata utilizzando schemi abbastanza consueti e modalità rappresentative spesso di derivazione teatrale, per raccontare una trama scarna ma significativa, che è anche e soprattutto un’acre parabola satirica alla Brecht  (la cui influenza sul suo cinema è rilevabile anche in altri lavori del periodo “formativo”) densa di accentuati simbolismi e di rabbiosa indignazione. Che si tratti di un simbolico apologo “morale”, lo si rileva anche da fatto non secondario che il protagonista viene definito solo con una lettera (la R), quasi a volerne indicare così la sua universalità, che è poi anche quella di un messaggio che non è circoscritto ai singoli avvenimenti evidenziati, ma intende  riverberarsi su concetti e posizioni più generali  che definirei “di principio etico.

Nella fattispecie, R. il protagonista, è un coreano emigrato in Giappone che si rende colpevole della violenza carnale e dell’omicidio di due ragazze, reati per i quali sarà condannato a morte mediante impiccagione, secondo le vigenti leggi. Singolarmente (e inspiegabilmente) però, l’uomo sopravvivrà all’esecuzione, sia pure privo di memoria. Una seconda esecuzione sarà però possibile solo se l’imputato, riprendendo coscienza delle sue colpe si riapproprierà anche del peso della responsabilità degli atti compiuti. Ciò impone ai giudici la necessità di riconferire a R. la “dimenticata”  personalità del colpevole che ha nel frattempo “smarrito”, attraverso una ricostruzione teatrale psicodrammatica dei punti più salienti della sua vita, compresi quelli relativi ai misfatti che hanno motivato la condanna. L’imputato ritroverà così se stesso e la propria coscienza, finendo  per accettare il ruolo che il sistema gli impone, quello che da colpevole lo sta trasformando quasi in vittima. La sua seconda esecuzione, scelta dallo stesso R. come inevitabile e definitivo atto sacrificale, lascerà però penzolare un cappio vuoto e mancante del corpo che gli era stato appeso. La metafora è lampante: R. (o meglio il suo corpo) non è lì perché la sua liberazione è gia avvenuta proprio in virtù della sua presa di coscienza e non ci sarebbe bisogno di perpetrare un altro misfatto omicida di analoga portata e significato : Voi volete uccidermi perché ho ucciso – griderà infatti R. ai sui carcerieri – ma se uccidere è una colpa, perché volete uccidere anche me?.

Come si vede dunque, un film decisamente contro l’esecuzione capitale che si schiera coraggiosamente e con vigore per riprendere e rendere ancora più espliciti temi che, sia pure su un piano diverso, erano stati centrali anche nel Monsieur Verdoux di Chaplin, tanto per fare un esempio di particolare pregnanza. La critica a quella specifica modalità di “fare giustizia” che si rivela così principalmente nel suo aspetto più bieco che è poi quello della vendetta, è profonda e netta, accompagnata per altro da una importante sottolineatura che ci fa percepire la colpa come discriminazione di classe. In quest’ottica, infatti l’impiccagione di R., emigrato “sgradito” della Corea, diventa il risultato logico di una politica colonialista che si esprime, durante tutto il film, nel lungo rapporto proprio tra R. e il sistema, che  restituisce a forza all’uomo la sua identità di “colpevolezza”, solo per la volontà di giustiziare il coreano straniero già per sua definizione “malvagio”.

Come si potrà dedurre dunque, un pamphlet principalmente politico e anche un tantino didascalico, che fa ricorso, per rappresentare al meglio le sue tesi, a un cinema che potremmo definire “da camera”,  con la cinepresa che indugia su lunghi primi piani e lente panoramiche, isolando le figure su sfondi anonimi, quasi un brechtiano incrocio (cinematograficamente parlando) fra Bergman e Rocha.

Però… non è solo questo il titolo (e il cinema) che Oshima produce quell’anno, poiché realizza anche - quasi in contemporanea - un’altra opera  per certi versi in antitesi, che anticiperà molto di più di quanto potesse sembrare a una sommaria lettura del momento, delle tematiche portanti  di ciò che verrà rappresentato nelle opere da La cerimonia in poi.

Mi riferisco a Shinjuku dorobo nikki (Diario di un ladro di Shinjuku in italiano) che evidenzia già la sorprendente aspirazione a un cinema di costruzione molto più libera e “audace”,  un cinema non ancora definito e compiuto pienamente nelle sue potenzialità espressive, e non del tutto depurato da insistite metafore ed auliche ricognizioni, ma già ambiziosamente “disturbante”.

Io personalmente ho di questa opera un ricordo  più coinvolgentemente fascinoso rispetto a L’impiccagione,, nonostante che l’edizione alla quale mi riferisco - che è poi quella che è circolata in Italia - fosse afflitta da pesanti ed evidentissimi tagli dovuti alla non digerita scabrosità da parte del nostro ottuso sistema censorio in atto, più che di alcune situazioni, proprio dei concetti espressi.

E per questo lavoro, all’opposto che ne L’impiccagione, Oshima  si appoggia su un ordine narrativo interno tutt’altro che tradizionale, rifuggendo così da giustificazioni psicologiche ed esornativi nessi drammatici. Attorno ai due grandi tabù della tradizione giapponese (che sono poi quelli della “violenza”” e del “sesso” sui quali il regista ritornerà poi in seguito con prepotenza assoluta) Oshima intesse questa volta una rete di situazioni  in cui i nessi logici sono spesso sostituiti (o alterati) da libere invenzioni anche “associative”. Le più dirette e palesi analogie con la precedente pellicola, riguardano invece sopratutto l’impostazione  generale ancora una volta di derivazione teatrale dell’impianto e i rimandi a Brecht (vedi il “coro” dei teatranti, il rumore della cinepresa che riprende le azioni, e l’ostentata esasperazione della finzione scenico-filmica, qui esplicitata nell’uso del rosso della vernice-sangue nelle sequenze a colori) anche se poi il metodo brechtiano rimane – e qui con ancora maggiore evidenza – totalmente disancorato proprio da quella che si connota invece come una delle sue caratteristiche fondamentali  che si estrinseca nella semplicità-popolarità dell’approccio.

E nel caso precipuo, è proprio il concetto espresso dalla frase non c’è libertà se viene negata quella sessuale che costituisce in pratica la chiave di volta per una lettura comprensibilmente coerente dell’intera opera, poiché il superamento di quella che vorrei definire come “la fase teorica preliminare” del suo percorso (che coincide da un lato con le seduzioni dell’industria culturale e del sistema, e si identifica invece dall’altro, in una interpretazione passiva e fortemente edonistica proprio degli strumenti definibili appunto di “liberazione”, come potrebbero essere il cinema e i libri) avviene provocatoriamente attraverso l’esplicitazione visiva, impudica e sfacciata (causa non  secondaria delle noie con la nostra censura) del sangue mestruale, il sangue maledetto sette volte della tradizione giapponese, e dell’amplesso liberatorio che proprio su questo sangue si sviluppa e prende corpo, mentre contemporaneamente, fuori, nel contesto sociale, scoppia la rivolta. La metafora espressa si chiarisce così definitivamente in tutta la sua potenza, poichè quel rapporto carnale  che è una “liberazione sessuale” vera e propria, diventa anche l’espressione di una “liberazione politica” (senz’altro Oshima è stato fortemente influenzato al riguardo da L’angelo sterminatore di Buñuel, e dal suo “messaggio”, essendo troppo forti ed evidenti le analogie “concettuali” che si rilevano, per essere soltanto casuali).

La dimensione anche europea del suo cinema nel passaggio progressivo che lo porterà poi alla “sintesi perfetta e compiuta” della sua arte  de  La cerimonia, fondamentale risultato impregnato e dominato dalla presenza incombente della morte (eros e tanatos), si ha però proprio con l’altro titolo che nel 1970, la precede di un anno. Parlo di Tokio senso sengo hiwa, tradotto da noi Storia segreta del dopoguerra dopo la guerra di Tokio che presenta riferimenti tutt’altro casuali per esempio, con le riflessioni sulle responsabilità personali del Resnais di Muriel, o con le implicazioni  fortemente psicoanalitiche del Bergman di Persona, ma rivisitate con lo sguardo più disincantato e cinico dei “classici” apologhi godardiani del periodo, primi fra tutti Vento dell’est e La cinese.

La struttura perfettamente chiusa del film, acquista infatti un’indubbia efficacia narrativa chiarendo proprio i termini di un fallimento (la rivolta degli studenti) e le sue conseguenze, mentre la ricerca del protagonista (esplicitata soprattutto “dal film nel film”) si articola e si muove attraverso una fitta rete di problematiche che fanno riferimento a un cinema  che interroga se stesso (J.L. Godard), in cui si pone una non facile scelta tra un’attività militante che rifiuta in pratica la funzione artistica del cinema, subordinandolo in un ruolo più velleitario di documentazione, e la fuga soggettivistica di chi cerca invece di capire il mondo,  oltre che di esprimerne la propria visione seguendo schemi appartenenti  a una cultura intesa soprattutto come  “rappresentazione” che vuole essere anche “testimonianza”, piuttosto che  semplice  intervento divulgativo di conoscenza.

Nell’opera in esame, ci sono antefatti importanti e fondamentali: il protagonista, Motoki cerca di ripercorrere l’itinerario che ha seguito un  giovane suicida che gli ha lasciato come testamento un film (ancora la “doppia” espressione artistica che si compie dentro l’opera) fatto di paesaggi cittadini, banali e slegati,  quasi insignificanti. La ricerca, quasi  ossessiva, lo porta a scoprire dietro quei paesaggi all’apparenza ordinari e “senza storia”, i segni di continue, reiterate violenze delle quali è oggetto anche la sua compagna Yasuko, e alle quali  lei è costretta a soggiacere passiva senza che nemmeno il suo uomo opponga alcuna apparente ribellione e resistenza.

Yasuko prenderà così lentamente coscienza del suo ruolo di vittima predestinata accettato senza reazione anche da Motoki, e superando con un coraggio tutto al femminile proprio la sua insipiente distruzione interiore, porrà coraggiosamente l’uomo di fronte alle sue responsabilità, costringendolo così ad affrontare il peso del  ruolo di passivo testimone che si è assunto, che è già di per sé un suicidio  soprattutto “morale”. Anche Motoki allora, schiacciato sotto il peso della propria insipienza, si suiciderà, non tanto per una libera e consapevole scelta, ma perché prende coscienza che solo in quell’atto può ritrovare il senso del suo soggettivismo interpretativo delle cose e del mondo, che lo porta inesorabilmente a “non agire e ad identificarsi invece, ripetendone le gesta, proprio con il suicida che gli ha lasciato come testamento il film.

Il cerchio si chiude dunque con il pesante fardello di un pessimismo inesorabile, senza che vengano evidenziati risvolti positivi, o comunque effettive indicazioni di un superamento che potrebbe essere anche di semplice “presa di posizione”, poiché nemmeno il lavoro (e la visione) degli ottusi compagni di Motoki, burocrati senza storia di una rivoluzione che non è “rivoluzionaria”, si sviluppa in positivo, non riuscendo ad identificare nel gesto alcuno spunto concreto capace di rivificare la loro funzione rigenerante, e preferendo invece restare alla “negazione” persino dell’atto, dimenticando e cancellando così ogni propria funzione liberatoria  e di crescita anche ideologica.

Se dunque possiamo tentare di etichettare in qualche modo il ciclo formativo della prima fase di questo grandioso raccontatore di “passioni” e di estreme concezioni di vita, potremmo farlo definendolo soprattutto un “cinema di metafore” potenti e destabilizzanti, non legato però ad una percettibilità diretta (che implica anche immediata emozione condivisa e partecipata) ma piuttosto al suo rifiuto cosciente, così da porre brechtianamente lo spettatore nella condizione di osservatore esterno, in grado cioè di giudicare e valutare in maniera straniata, ciò che gli viene rappresentato con queste parabole educative di “conoscenza” che hanno una valenza anche politica non indifferente e tutt’altro che secondaria.

Per questo, nemmeno gli interrogativi più inquietanti  vengono posti in termini logici, ma bensì permeati di una ambiguità enigmatica che contribuisce notevolmente ad accrescere il loro  fascino e la loro attrattività avvolgente: il cinema di Oshima, pur lasciando “esterno” lo spettatore, ha sempre la  peculiarità straordinaria di identificarsi fino in fondo con le storie (e i valori) che rappresenta, di definirle magnificamente proprio in senso cinematografico, raggiungendo così una originalità tutt’altro che casuale, ma ricercata e spesso stimolante… e queste tre opere sopra menzionate, al pari delle altre che le hanno precedute (quelle ovviamente che mi è stato concesso di visionare, e mi riferisco a Racconto crudele della giovinezza, Il cimitero del sole, Notte e nebbia sul Giappone e Il demone in pieno sole, portano “dichiarate tracce dei semi della grandezza che germoglieranno con inusitato vigore in indimenticabili capolavori come La cerimonia, L’impero dei sensi, L’impero della passione, Furyo e Tabù-Goatto.

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