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El Abrazo de la Serpiente

Regia di Ciro Guerra vedi scheda film

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La recensione su El Abrazo de la Serpiente

di Peppe Comune
8 stelle

Unico sopravvissuto tra la sua gente, Karamatake (Nilbio Torres) è uno sciamano che vive da solo nel cuore della selva amazzonica. Siamo nei primi anni del novecento, ed un giorno la sua quiete naturalistica viene interrotta dall’arrivo di Theo von Martius (Jan Bijvoet), un importante etnografo tedesco che sta svolgendo delle importanti ricerche in quel territorio sterminato. Accompagnato da Manduca (Yauenku Miguee), lo scienziato è alla ricerca proprio di Karamatake, perchè sa che è l’unico che può procurargli la Yakruna, una pianta allucinogena capace di generare sogni rivelatori e di curarlo dal male mortifero che lo affligge. Gli dice di sapere dove sono altri superstiti del suo popolo e gli promette in cambio di condurlo da loro. Guadano così il fiume Yari, attraverso il cuore pulsante della foresta.  Circa quarant’anni dopo, un altro importante scienziato di nome Evan (Brionne Davis), seguendo la rotta tracciata dalle memorie del suo illustre predecessore, arriva di nuovo al cospetto di Karamatake (Antonio Bolivar). Lo scopo è sempre quello di trovare la Yakruna, lungo lo stesso fiume, sostando negli stessi posti e verso la stessa meta.

Questo film si ispira liberamente ai diari di viaggio di Theodor Koch Grunberg (1872-1924) e Richard Evans Schltes (1915-2001), uniche fonti conosciute sull’esistenza di numerose culture amazzoniche. Voci andate perdute per sempre.   

 

scena

El Abrazo de la Serpiente (2015): scena

 

“El Abrazo de la Serpiente” di Ciro Guerra è un film dalla forte carica visionaria, capace di portare la mente laddove vogliono i percorsi misteriosi dei sogni nel mentre tiene fermo i corpi alle proprie responsabilità terrene. Tutto giocato sul rapporto atavico tra la natura e il genere umano, tra le immense risorse offerte dalla prima e l’istinto a sfruttarle in base ai propri bisogni del secondo. Il taglio etnografico è evidente, ma l’autore colombiano lo declina in una narrazione accattivante che ne ammorbidisce il carattere principalmente “documentaristico”. Si intrecciano due diversi viaggi lungo lo stesso fiume, attraverso le stesse soste e verso lo stesso obiettivo a circa quarant’anni di distanza l’uno dall’altro. Si è alla ricerca della Yakruna, una pianta sacra che fa entrare in un mondo di sogni rivelatori chi la assume, Evan segue la rotta tracciata dalle memorie scritte di Theo, ad accompagnare entrambi in questa sorta di viaggio iniziatico nel cuore della selva amazzonica è Karamatake, che per il suo cammino ascolta esclusivamente la voce dell’immensa foresta, unica e irripetibile, sempre e comunque. Perché il tempo può corrompere l’essere umano fino a condurlo alla pazzia più esasperata, ma non può niente contro il sempiterno equilibrio planetario garantito dagli elementi della natura. È questa forza a tratti surreale a dare al film un fascino del tutto originale, a spingerlo con prepotenza oltre il periodo storico rappresentato, a parlarci un linguaggio universale udibile e capibile da chiunque.

Con Ciro Guerra è ancora una questione di viaggio dentro i territori più vergini del pianeta, a contatto con culture millenarie in via di completa e definitiva estinzione, di riti magici capaci di estraniare l'uomo dalla sua entità corporea. Di cammini intrapresi da uomini per giungere all’origine dei loro mali interiori. Nel suo film precedente (non ho ancora visto il suo primo film), il bellissimo “Los viajes nel viento”, un suonatore di Accordeon fa un lungo viaggio per consegnare lo strumento al proprietario originario perché la sua “origine diabolica” lo ha reso schiavo della musica che produce. Si attraversano alture inospitali, villaggi popolati dalla miseria, distese di terra arse dal sole, territori sottratti allo scorrere del tempo e lontani dalla sedicente benevolenza della storia. Ne “El abrazo de la serpiente”, invece, si guada in canoa il fiume Yari per penetrare il cuore dell’Amazzoni alla ricerca di una pianta dalla linfa vitale. In entrambi i casi, l’uomo si confronta con credenze ed usanze che affondano le loro radici fino all’origine del mondo, con culture secolari destinate a rimanere inascoltate. E si vede costretto a constatare la sua necessaria limitatezza rispetto alla natura che lo circonda. Aspetto questo accentuato soprattutto nel film in esame, capace di trasmettere la stessa sensazione ipnotica di cui sembrano fatti “schiavi” i personaggi del film, come di uno stato mentale continuamente sospeso tra vita che trae origine da ogni essere animato che abita l’immensa foresta amazzonica, e la morte che merita chiunque non la rispetta e non sa credere alla forza premonitrice dei sogni. Una sensazione rassomigliante ad un abbraccio avvolgente, che annichilisce sul nascere il modo consueto con cui si guardano e si interpretano le cose. Abbastanza emblematiche sono le parole che Theo von Martius annota sul suo diario di bordo (e che precedono l’inizio del film) : “Non mi è possibile sapere se la selva infinita abbia già iniziato in me il processo che ha portato molti altri alla pazzia totale e irrimediabile. Se è così, non mi resta che chiederti perdono e comprensione, dato che la magia che mi coinvolse, in quelle ore incantate, fu tale da non riuscire a trovare le parole per far comprendere ad altri la sua bellezza e il suo splendore ; so solo che, al ritorno, ero già diventato un altro uomo”.  

La pazzia che parla il prestigioso etnografo nelle sue memorie è quella che abita dentro il cuore inespugnabile della selva, che chiede il rispetto incondizionato del suo equilibrio naturale, che si sappia ascoltare con rispetto devoto la sua voce millenaria. Una sorta di entità metafisica che sa insinuarsi sotto forma di segni “psichedelici” nella coscienza sporca della parte ricca del mondo, che esige la sua vendetta riparatrice contro il colonialismo predatorio e le evangelizzazioni indiscriminate. La selva amazzonica è simbolo di vita, le sue acque che si ramificano in più punti, gli animali di ogni specie che la popolano, le piante secolari che danno ossigeno alla terra, le anime dei defunti che custodiscono segreti primordiali. Tutto è partecipe di un ecosistema autosufficiente che non ammette intrusioni irrispettose, un equilibrio geofisico che non tollera lo spreco generato dagli agenti esterni. L’uomo, invece, è strumento di morte, col suo passo pesante, la sua avidità mercantile, il suo etnocentrismo arrogante, la sua vanità scientifica, il suo desiderio ossessivo di rendere conoscibile le forme misteriose del mondo. Karamakate è rimasto l’unico a saper ascoltare la voce della selva, passano gli anni, e lui rafforza la sua posizione di custode esclusivo di questo immenso tempio della vita, cuore pulsante di un mondo che troppo spesso lo ha ignominiosamente maltrattato.

“El abrazo de la serpiente” è un grande film, dedicato “alla memoria dei popoli le cui canzoni non conosceremo mai”. Perché l’odierna Amazzonia in fiamme ha origini lontane.

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