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I vitelloni

Regia di Federico Fellini vedi scheda film

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La recensione su I vitelloni

di Antisistema
9 stelle

Il cinema di Federico Fellini, viaggia ben oltre i confini della settima arte, facendosi portatore di istanze etnologiche, sublimando il sentire dei tempi, tramite la coniazione di famosi neologismi, che poi entreranno a far parte dei dizionari italiani.
Una lunga gavetta nel cinema, dapprima come sceneggiatore di vari film, tra cui si segnalano per importanza quelli di Roberto Rossellini, Alberto Lattuada e Pietro Germi, per poi approdare alla regia con Luci di Varietà (1950) e Lo Sceicco Bianco (1952). Due opere disastrose ai botteghini e fallimentari presso la critica.
Questo doppio colpo devastante in negativo, avrebbe messo K.O. qualsiasi esordiente, facendolo ritornare sui propri passi di sceneggiatore, abbandonando la regia cinematografica per sempre, ma non Fellini, che ha le spalle larghe, di chi ha sicurezza e fiducia nei propri mezzi.
Il regista rifiuta tutte le offerte datagli dai vari produttori in merito a progetti per lui poco interessanti, ma al contempo si vede rifiutata la possibilità di dirigere un lavoro che sta coltivando la tempo, “La Strada”.
Troppo fuori dagli schemi, troppo diverso da tutti gli altri film, una favola troppo similare a Miracolo a Milano di Vittorio De Sica (1951), anch’esso flop enorme presso il pubblico, ma in realtà "La Strada", agli occhi limitati dei finanziatori, risulta essere un film anomalo rispetto al contesto dell' epoca, un’opera troppo "felliniana", senza che tale aggettivo, si sia ancora fatto strada presso il grande pubblico.
Fellini deve così mettere momentaneamente da parte tale lavoro, ma per sua fortuna i produttori sono disposti a finanziargli una pellicola, purché sia una commedia!
Il regista, assieme al suo fido collaboratore Ennio Flaiano, di getto butta giù un soggetto, basato su una termine dialettale; “vidlòn” parola di origine riminese (o marchigiana, Tullio Kezich nel sul libro su Fellini, non riesce ad identificarne l’esatta fonte di provenienza), che poi diventerà in lingua italiana “I Vitelloni”, che tutti conosciamo, anche se il cineasta dovette battersi contro i produttori per tale titolo, in quanto considerato da costoro oscuro nel significato a tutto il resto d’Italia, ma fortunatamente la spuntó il regista di Rimini, con tanto di prova del tempo a suo favore.
Lo spunto neorealista, di narrare il quotidiano di quattro trentenni di una città della riviera romagnola, si scontra già con l’estro artistico di Fellini, nel girare il film non nei luoghi in cui è ambientato, ma negli studi, persino la spiaggia che vediamo costantemente inquadrata nel film, risulta quella di Ostia, un concetto cinematografico che parte dal ricordo, poi filtrarlo attraverso la propria immaginazione, creando un personale “fantarealismo”.
Il ciclo della vita prevede, che i figli si stacchino dai genitori per camminare con le proprie gambe, ma del grande passo Fausto (Franco Fabrizi), Alberto (Alberto Sordi), Leopoldo (Leopoldo Trieste), Riccardo (Riccardo Fellini) e Moraldo (Franco Interlenghi), non ne vogliono proprio sapere; solo Fausto malvolentieri è costretto a crescere a forza, dopo aver messo incinta Sandra (Leonora Ruffo), sorella di Moraldo, senza però che la genitorialità, gli abbia messo la testa apposto, sospeso tra la nostalgia della vita precedente con i suoi amici e la sua indole di mediocre seduttore.

 

Alberto Sordi

I vitelloni (1953): Alberto Sordi


Sono passati 8 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ma la gioventù (oramai attempata per il contesto del 1953), passa le sue giornate in un dolce far niente, tra bagordi, visite al bar e notti insonni.
Un eterno far niente, senza ideali, senza prospettive, senza crescita. Inebriati tra i fumi dell’alcool e comode maschere in un carnevale infinito, sovvertendo ogni valore e rinnegando ogni responsabilità, pur rendendosi conto del vorticoso vuoto della propria esistenza come fa Alberto, non si ha il coraggio di compiere quel balzo pauroso, ma necessario, che consiste nel prendere in mano la vita e cambiare radicalmente.
Il mondo di questi cinque "vitelloni", si ferma al piccolo paese di provincia in cui hanno passato quasi tutta la propria vita. La città, così come la capitale Roma, risuonano lontane minacciose, e per questo, prontamente rinnegate, in quanto pericolose nell’alterare un comodo status quo.
Fellini aderisce la materia del racconto, alle vicissitudini corali e slabbrate dei suoi protagonisti, sperimentando una struttura narrativa a blocchi episodici, che adopererà successivamente per quasi tutti i suoi film. La frammentazione, conduce ad un’unità ambientale, ma senza fornire alcun origine del problema, men che meno soluzione, su tale stile di vita, rinunciando quindi ad ogni pretesa d’indagine della realtà, di stampo cronachistico-documentaristico.
Questo gli ha da sempre alienato le simpatie della maggioranza dei critici italiani (per lo più di sinistra), che invece dietro gli slanci artistico-visivi di Fellini, non ne ha mai colto l’intimo dolore, di una società errabonda tra le distese sabbiose di spiagge lambite da onde, in continuo flusso e riflusso, vagando confusi in eterni quanto ripetuti errori e spaventati da nuove ambiguità, fatte di sogni inquietanti e realtà stranianti, proposte dall’attore Sergio Natali (Achille Majeroni).  
Un cinema quello di Fellini apparentemente sincronico, ma il cui andamento diacronico si scorge nella simpatia del cineasta verso i poveri genitori dei “vitelloni”, costretti a metodi spicci, per tentare di mettere in riga questi ragazzi oramai da un pezzo adulti biologicamente, ma nella mente eterni ragazzini, i cui gesti dovrebbero far sorridere, attraverso una litote comica, che nega il sorriso dello spettatore, tramite raccordi di montaggio tra situazioni differenti - Fausto che cerca la moglie in contrasto con i suoi amici intenti a sfottere degli operai -, oppure dal contesto stesso della scena - un padre in età avanzata, costretto a picchiaare il figlio trentenne sposato perché eterno immaturo, un fatto di una tristezza sconcertante -, sancendo con tali laceranti dicotomie, la nascita della cosiddetta commedia all’italiana, che poi verrà sviluppata da altri registi.
Al niente eterno, il giovane Montaldo - chiaro riferimento autobiografico di Fellini -, giunge a preferire una fuga senza meta, pur di non restare un minuto di più in tale angoscia senza prospettive di crescita, regalandoci uno dei finali più lirici e toccanti, di tutta la storia del cinema.
Al terzo film, Fellini fece centro, ottenendo il Leone d’Argento a Venezia nel 1953, con accoglienze critiche favorevoli e grande successo di pubblico, lanciando al contempo Alberto Sordi come star nazionale, seppur nel film sia un personaggio secondario, sovrastato nelle vicende narrate da quella del matrimonio insoddisfacente di Fausto e come interpretazione, da quella intima, sofferta e sensibile di Franco Interlenghi, il quale purtroppo, verrà poco valorizzato dal nostro cinema, nonostante le indubbie qualità di attore.

 

scena

I vitelloni (1953): scena

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