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La vita e niente altro

Regia di Bertrand Tavernier vedi scheda film

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La recensione su La vita e niente altro

di degoffro
8 stelle

Rec breve

Straordinaria e lucidissima opera antimilitarista di Bertrand Tavernier che compensa una certa lentezza narrativa, tale da rendere il ritmo leggermente faticoso, soprattutto nella parte centrale, e una qua e là sottile freddezza emotiva, con una potenza morale raramente vista al cinema e perfettamente incarnata dal personaggio di Dellaplane, il solito gigantesco Philippe Noiret per la cui bravura e classe recitativa ormai non ci sono più parole. Kubrickiano.

Voto: 8



Ottobre 1920. Il Maggiore Dellaplane ha il gravoso incarico di identificare non solo i molteplici reduci della Grande Guerra, spesso ridotti in condizioni fisiche e psicologiche pietose, ma soprattutto i morti e i dispersi. Così dice a un suo soldato: "Ho bisogno di segni, cicatrici, tatuaggi, verruche. Un disperso è uno che può essere o morto, o vivo o metà e metà. Li ho tutti sulle spalle io i dispersi e allora li protocollo, li classifico, li indago!" Durante il suo lavoro, caratterizzato da una puntigliosa precisione affinché possa "di tanto in tanto arrivare a mettere un nome su un volto o un volto su un nome, e così c'è un disperso in meno", il maggiore ha l'occasione di conoscere due donne. La ricca Irene, alla ricerca del marito, figlio di un importante senatore che preme affinché il suo corpo venga ritrovato e gli siano attribuiti i giusti onori, e la giovane maestra Alice, costretta però a lavorare in una locanda come cameriera e, a sua volta, desiderosa di ricongiungersi con il fidanzato. Nel frattempo l'esercito chiede a Dellaplane di trovare il cadavere di un soldato francese che rappresenti il Milite ignoto. Dellaplane che non ha mai nascosto il suo fastidio e la sua insofferenza verso l'arroganza dei superiori e la meschinità dei politici rifiuta, nella ferma convinzione che, anche a distanza di anni, i morti possono trovare identità, così che l'incarico viene affidato dal generale che lo definisce "un sovversivo" ad un altro ufficiale. Contemporaneamente i rapporti con Irene, dapprima improntati ad una certa diffidenza e scontrosità, si fanno sempre più amichevoli anche perché il maggiore, in più di un'occasione, rivela verso la donna, dietro il suo atteggiamento burbero e irascibile, una gentilezza e un'attenzione sorprendenti che evidenziano un progressivo sentimento di affetto. Quando però la donna lo invita a fare una scelta di vita definitiva, l'uomo non ne ha il coraggio. Due anni dopo scriverà una lunga lettera d'amore alla sua Irene ormai trasferitasi negli Stati Uniti. Proprio nel post scriptum di questa missiva è sintetizzata la devastazione di quel conflitto e allo stesso tempo l'importanza, soprattutto etica, del durissimo lavoro di Dellaplane. Infatti il maggiore così scrive: "In confronto al tempo impiegato dalle truppe alleate a percorrere i Champs-Élysées durante la sfilata della vittoria, circa tre ore credo, ho calcolato che nelle stesse condizioni di velocità di marcia e di formazioni regolamentari, la sfilata dei poveri morti di questa inespiabile follia non sarebbe durata meno di 11 giorni e 11 notti!" Una dichiarazione che da sola mette i brividi. Straordinaria e lucidissima opera antimilitarista di Bertrand Tavernier che compensa una certa lentezza narrativa, tale da rendere il ritmo leggermente faticoso, soprattutto nella parte centrale, e una qua e là sottile freddezza emotiva, con una potenza morale raramente vista al cinema e perfettamente incarnata dal personaggio di Dellaplane, il solito gigantesco Philippe Noiret per la cui bravura e classe recitativa ormai non ci sono più parole. Come ha scritto sapientemente Giovanni Grazzini "La vita e niente altro ci tocca soprattutto per la sintesi intelligente di macabro e di grottesco, per come rappresenta un mondo che odora di morte (il pellegrinaggio dei superstiti, un treno fantasma nel tunnel minato dai tedeschi, il pericolo di saltare in aria e di restare asfissiati), e per il disincanto con cui ricorda gli ottimi affari realizzati, in quegli anni, dagli scultori di monumenti ai caduti. La vita e niente altro dice la verità ai francesi (che nella Grande guerra ebbero un milione e mezzo di morti, più di quanti ne avevano fatti tutte le guerre napoleoniche) con una crudezza che nessun cineasta italiano avrebbe nei confronti del mito del Milite ignoto. La vergogna non sta infatti nell'irriverenza ma nel credere che basti un altare di marmo per assolvere la carneficina." Accanto alla meticolosa ed attendibile ricostruzione storica (che fa il paio con il superbo lavoro fatto per il Medioevo del precedente e assai sottovalutato "Quarto comandamento"), alla mirabile e dettagliata ambientazione nella regione del Verdun devastata dalla guerra (lode alla preziosa fotografia di Bruno de Keyzer), all'ironia spesso amara e spiazzante con cui si scherza sulla vicenda del Milite Ignoto, e alla regia di grande respiro, ricca di primi piani e panoramiche a valorizzare gli spazi in cui i protagonisti si muovono, incisiva, profondamente umana e vicina ai personaggi, non si può non menzionare la toccante prova di Sabine Azema, già complice del regista in "Una domenica in campagna", ruolo inizialmente affidato a Fanny Ardant che ha dovuto rinunciare a malincuore perché incinta, mentre la produzione avrebbe voluto Catherine Deneuve. Sbaglia chi ritiene la parentesi sentimentale posticcia e superflua: arricchisce ancor di più una storia già di suo particolarmente intensa, autentica e sfaccettata. Anche se poi a rimanere impressi nella memoria sono soprattutto la determinazione, la coerenza, l'onestà, l'indignazione, l'integrità e la sincera sofferenza di Dellaplane che, pur di non tradire i suoi valori e i suoi ideali, abbandona malinconicamente la divisa militare, nauseato dalle dinamiche di mero interesse e dagli squallidi compromessi che vigono nell'esercito e nelle alte sfere politiche. Per lui del resto ciò che conta è il bene supremo e assoluto: la vita e niente altro. Il titolo è ispirato a un verso del poeta Paul Eluard: "Il ne faut pas de tout pour faire un monde, du bonheur et rien d'autre." Nonostante le molteplici difficoltà produttive (Tavernier si è dovuto battere quasi come se fosse un'opera prima), il film, girato in condizioni ambientali assai problematiche nei mesi di novembre e dicembre del 1988 nella fredda regione della Lorena, è il secondo più grosso successo commerciale del regista in patria dopo "Colpo di spugna" (oltre un milione e mezzo di spettatori). Senza paura di esagerare, in alcune occasioni, per la notevole capacità di evitare ogni tipo di retorica, fa venire in mente il fondamentale "Orizzonti di gloria" di Kubrick. Scritto dal regista con Jean Cosmos con cui firmerà anche i copioni di "La figlia di D'Artagnan", "Capitan Conan" (con cui Tavernier torna in modo durissimo a parlare della Grande Guerra) e "Laissez-passer". 11 nominations ai César (premiati Noiret e le musiche di Oswald d'Andrea). Noiret ha vinto anche il David di Donatello e l'European Film Award quale migliore attore. Premio Bafta per il miglior film non in lingua inglese.
Voto: 8

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