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Regia di Jerzy Skolimowski vedi scheda film

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Peppe Comune

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La recensione su 11 minuti

di Peppe Comune
8 stelle

Un uomo (Wojciech Mecwaldowski), gelosissimo della della bella moglie (Paulina Chapko), la segue mentre questa si reca in un lussuoso albergo per fare un provino cinematografico con un sedicente regista (Richard Dormer). Un uomo appena uscito di galera (Andrzej Chyra) vende hot-dog con un carrettino ambulante. Chiama spesso il figlio (Dawid Ogrodnik) al telefono, che fa il corriere della cocaina a domicilio. Un lavavetri (Piotr Glowacki) si prende una pausa dal lavoro guardando un film porno insieme alla ragazza (Agata Buzek). Un ragazzo (Mateusz Kosciukiewicz) tenta una strana rapina. Una ragazza (Ifi Ude) è a passeggio con il suo cane. Un anziano pittore (Jan Nowicki) si mette a dipingere sulla riva di un fiume, nelle sue vicinanze è allestito un set cinematografico. Un gruppo di addetti al servizio di autoambulanza, guidati da una dottoressa molto determinata (Anna Maria Buczek), trova molta difficoltà a portare soccorso medico ad una famiglia. Diverse persone che fanno cose totalmente slegate tra di loro e che solo per qualche istante avranno modo di intrecciare i rispettivi destini. Spaccati di vita catturati nell’arco di 11 minuti soltanto, nel corso dei quali avviene una cosa strana avvertita quasi da tutti : la presenza di un'enigmatica macchia nera nel cielo.

 

Wojciech Mecwaldowski

11 minutes (2015): Wojciech Mecwaldowski

  

“11 Minuti” di Jerzy Skolimowski è un film di acuta intelligenza, un’opera legittimamente figlia del suo contingente, che oltre a dare il suo buon contributo sotto forma di sperimentazioni visive al linguaggio cinematografico coevo, entra in piena connessione con le riflessioni che la filosofia contemporanea va facendo da qualche anno sulla percezione del reale e della rappresentazione che se ne fa attraverso il filtro delle immagini teletrasmesse (in questo film, credo siano  rinvenibili tracce del pensiero speculativo di Slavoy Zizek, e di un suo libro in particolare “Benvenuti nel deserto del reale”).

11 minuti, 11 personaggi cardine, la camera numero 1111 situata all’undicesimo piano di un grande albergo, il luogo da cui scaturirà un evento che legherà per un attimo le vite di ognuno. Un aereo roboante che vola rasente gli alti palazzi di Varsavia evoca direttamente l’11 settembre 2001, “la data che sconvolse il mondo”. Tanti uno che non si sommano, tante solitudini esistenziali che non si toccano emotivamente, ognuno producente un proprio modo di stare al mondo. Un mondo che ognuno guarda secondo il climax sentimentale del momento, catturato in un arco temporale ben codificato, che può essere breve o lungo, dipende da quello che ci si aspetta da ogni attimo di vita vissuta. Chi è eccitato, chi è tesa, chi è geloso, chi è apatico, chi è ansioso, chi è curiosa, chi è annoiato, chi ha paura, chi è serena, chi è paziente, chi è tenace. Tanti sguardi quanti sono gli scarti emozionali misurati in un lasso di tempo di soli 11 minuti. Tanti sono bastati a Jerzy Skolimowski per farne l’inizio e la fine di un microcosmo che si auto conclude, un puzzle scomponibile e sovrapponibile, dove tutte le parti che lo compongono generano un andamento circolare assolutamente non determinato dalla loro volontà. Un lasso di tempo che la finzione cinematografica dilata in 79 minuti per accrescere di senso il peso specifico che il caso può avere nell’incrociare i destini esistenziali di individui tra loro molto diversi. Ma non è questo l’elemento (affatto) originale del film, quanto il suo farsi una riflessione attenta sul senso del guardare e dell’essere guardato, il pensarsi come oggetto che serve ad educare criticamente lo sguardo, ma anche come un tramite indiretto dell’artificiosità mediatica. Quest’opera di distorsione dell’immagine del reale, è presente nel film attraverso diversi segni simbolici : vetri che vanno in frantumi, il fare cinema evocato molto spesso, televisioni guardate distrattamente, schermi video che prendono vita da soli, videocamere intente a registrare ogni cosa, un uccello che finisce la sua corsa contro uno specchio ed, infine, i diversi modi in cui ci viene mostrata la trasmissibilità delle immagini. Come avviene ad inizio film, dove quella che sembrerebbe una sorta di presentazione di alcuni personaggi, viene fatta usando smartphone, web-cam, tablet, telecamere di sorveglianza. Tutti segni che riflettono un’invadenza sistematica del riflettersi delle immagini le quali, stando nelle cose che accadono, e come se volessero avvisare dell’imminenza di qualcosa di poco gradito. Da qui la presenza misteriosa di una macchia nera nel cielo di Varsavia, che mai ci viene mostrata (se non quando furtiva si “adagia” sulla tela di un quadro), ma che tutti avvertono come un’arcana presenza. Una macchia che corrompe il disegno geometrico di una giornata uguale a tutte le altre, che si frappone, anche solo per un attimo, tra le incombenze routinanti di sempre e un quesito angoscioso che nasce spontaneo. Una sorta di buco catartico sorto da una mente nata apposta per elaborare sempre nuovi scenari, che guarda con fare totalizzante ed è guardata con enigmatico sospetto.

Si riflette, dunque, sulla percezione che si ha della realtà, ormai filtrata quasi per intero dalla presenza invasiva dei mezzi di comunicazione di massa, capaci ognuno di garantire una trasmissibilità delle immagini con forme e contenuti sempre diversi. Sul suo essere, necessariamente, un oggetto del vero, ma anche, date le circostanze, un agente del falso. Su questo suo porsi sullo stesso binario delle immagini trasmesse in serie, di trovarsi confinata tra lo spettacolarizzare eccessivamente una cosa reale e il vestire di vero una cosa falsa (ecco in concreto le riflessioni del filosofo sloveno contenute nel libro citato, appunto incentrato sui fatti dell'11 settembre). Le creazioni umane, belle o brutte che siano, sono ormai partecipi di questo inganno generalizzato, sottoposte ad una sorta di verità consolatoria che tiene viva la convinzione che ogni cosa del reale può essere rimodellata a piacimento secondo i desideri di ognuno.

Tutto è dimostrato nel finale “apocalittico” del film, che noi vediamo insieme ad una videocamera che ha ripreso tutto, ininterrottamente. Un finale dove l’ipperrealismo “catastrofista” rende vano ogni tipo di riflessione sulla ragionevole credibilità di quanto abbiamo visto. Alla fine, una carrellata ottica all’indietro allarga il campo riducendo e moltiplicando i piani di ripresa. Nel mentre, si susseguono a ripetizione le immagini provenienti da diversi punti della città. Fino a non distinguere più niente. L’occhio totalizzante si ritira, ha appena finito di registrare un altro spettacolo. Grande cinema di un grande vecchio del cinema europeo.

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