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Viale del tramonto

Regia di Billy Wilder vedi scheda film

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La recensione su Viale del tramonto

di LorCio
10 stelle

Strana gente bazzica in quel di Hollywood. Tra di loro c'è Norma Desmond, ex diva del muto, che dopo l'avvento del sonoro ha dovuto fare armi e bagagli e rifugiarsi in un villone-mausoleo, dove il lusso regna sovrano e auto-venera la sua persona. Al suo servizio c'è un maggiordomo, fedelissimo fino al sacrificio, nonché suo pigmalione e suo primo marito. E l'arrivo di un giovane sceneggiatore belloccio, James, non può che scombussalare la vita della vecchia diva, una che ha abbandonato il cinema perché la sua grandezza non può essere comparabile alla piccolezza della settima arte ("Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo per me"). Fatto sta che il giovane è costretto dalla vecchia a mettere a posto il soggetto che ha scritto in anni e anni di esilio -volontario fino a che punto?-, una Salomè eccessiva ed auto celebrativa che anche il grande Cecil B.De Mille, vecchio compagno di lavoro di Norma, si rifiuta di portare sullo schermo. L'attacco micidiale allo smisurato ego della donna e l'epilogo non possono che essere tragici.

 

Viale del tramonto è un'opera di alto prestigio, inutile dire che è il capolavoro di Billy Wilder e di quasi tutto il cinema del dopoguerra, perché è il film nel quale Hollywood si prende gioco di Hollywood, o meglio, un lucido e amaro ritratto di come la vita può andare oltre il cinema. L'impeccabile script di Wilder e Charles Brackett scava in profondità, parte da una morte e fa parlare il defunto, un flashback lungo quanto il film accompagnato dalla voce off di Holden, capitato per un caso in un mondo pieno di ombre, autoreferenziale, distratto, decaduto. E la super villa di Norma altro non è che una metafora di un paesaggio dove la morte emerge più della vita, gli esseri inanimati trasmettono tutta la loro soffocata umanità più di coloro che respirano.

 

Un melodramma passionale, ma anche un noir a tinte fosche e non definite, un ritratto spietato di un luogo, Los Angeles, quindi Hollywood, che ha perso la distanza che dovrebbe esserci tra cinema e vita. E non è un caso che la protagonista sia interpretata da Glora Swanson, il suo maggiordomo dall'ineccepibile Erich Von Stroheim e Cecil B.De Mille si presti al gioco nel ruolo di se stesso. La vita e la carriera di Swanson non può che essere paragonata all'epopea della protagonista: anche lei diva del muto finita nel dimenticatoio come Norma, una relazione intrecciata e travagliata con Erich Von Stroheim -il maggiordomo del film-, rapporti lavorativi tutt'altro che facili col regista de I dieci comandamenti.

 

Nel suo ritorno sul grande schermo, Gloria s'identifica senza misteri in Norma, trasmettendo tutta la nostalgia per la vecchia Hollywood dove non serviva parlare, bastava uno sguardo per esprimere sensazioni, emozioni, sentenze. Ed è una recitazione tutta giocata su dialoghi superbi e sguardi inquietanti, un quasi autoritratto malinconico e nostalgico. E sono due le principali scene da ricordare: la partita a bridge tra "manichini di cere", vecchie stelle del muto in disarmo, tra i quali Buster Keaton che pronuncia le sue prime parole -al cinema-: "Passo... passo", come dire, io non devo parlare, appartengo ad un mondo dove non si parla; e la scena finale, la discesa nel mondo reale, morboso e crudele, di Norma, che scende le scale credendo di interpretare il tanto sognato film, col maggiordomo-marito-regista che gira la sua ultima scena. Ha un che di inquietante e grottesco questa sequenza livida, nostalgica, malinconica. Un atto d'amore vero il cinema. Il cinema oltre la vita. Anzi, è la vita a superarlo.

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