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Veronica Voss

Regia di Rainer Werner Fassbinder vedi scheda film

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La recensione su Veronica Voss

di PompiereFI
8 stelle

Sybille Schmitz è stata un’attrice tedesca che ha lavorato, soprattutto in Germania, a cavallo della seconda guerra mondiale e che esordì nel ’31 con un film sui vampiri diretto dal regista danese Carl Dreyer. La sua carriera fu costellata da titoli non troppo famosi (da “Il segreto dei candelabri” del 1936 fino a “La tragedia del Titanic” del 1943) e, dopo lo smacco per non essere riuscita a trasporre sullo schermo il romanzo “Cocaina” dello scrittore torinese Pitigrilli, si tolse la vita nel 1955.

Ed è con riferimento a questo anno che, nel film, si narrano le vicende dell’attrice Veronika Voss, anch’essa in parabola discendente dopo i fasti della cinematografia UFA dell’anteguerra. Fassbinder si è ispirato al suicidio della Schmitz per raccontarci la storia dell’ex star Voss che incontra fortuitamente un umile cronista sportivo di nome Robert, il quale si invaghisce della bellezza della donna e rimane affascinato dal mondo dello spettacolo. Se non fosse che Veronika nasconde un terribile segreto: vive, ormai indigente, nella casa della sua psichiatra (la dottoressa Katz) ed è dipendente dalla morfina.


C’è aria di film nel film in questo “Die Sehnsucht der Veronika Voss”, vincitore del Festival di Berlino nel 1982, tanto sembra che la forma e l’espressività scelte da Fassbinder nel rappresentarlo rasentino l’artificiosità. Il comportamento della donna è sopra le righe, eccentrico e nevrotico quanto basta perché si avanzino sospetti di simulazione. La decadenza dell’attrice, la fine del suo matrimonio, la dissolutezza nel bere e il congedo dagli Studi cinematografici paiono stemperati dallo stile scelto da Fassbinder nella realizzazione.

A parte l’interpretazione di evidente matrice teatrale (tra l’altro così profonda da sfiorare la perfezione), il regista tedesco ricorre a uno stupendo e raffreddato bianco e nero e, confermando la sua esperienza in fatto di movimenti di macchina, ricorre a un sottilissimo senso del montaggio tipico di certo cinema noir e melodrammatico in voga tra gli anni ’40 e ’50. Si conferma una volta di più che il “prodotto Fassbinder” è destinato a un pubblico in grado di apprezzare lo stile, l’arte e il genio prima che la concretezza.

Quello che storicamente ritorna dal passato di Veronika non è tanto l’oppressione del nazismo e del conflitto bellico in se’ e per se’ (seppure due altri pazienti della dottoressa Katz siano vecchi ebrei sfuggiti ai campi di sterminio), ma il fascino scintillante del Terzo Reich (i flashback sono pervasi da un ruffiano effetto flou che invita al consenso, le battute solenni dei personaggi sono rivolte più a chi guarda il film che ai personaggi stessi, creando così un risultato non lontano dalla didascalia). 

Veronika è, a dispetto di tutti i suoi misteri, una figura ordinaria e stolta; la sua dipendenza dalle droghe è una rinuncia anche alla vita. E’ la seduzione inquietante per qualcosa che ormai è perduto nel tempo; i suoi sogni sono fuori luogo, sono irrealizzabili, involutivi, non appartengono più al presente (dalle luci della ribalta la nostra eroina passa a quelle delle candele, ostinatamente fatte accendere al ristorante e in casa).

Detto e sottolineato che “Veronika Voss” si muove con disinvoltura in un ambiente senza dubbio incantevole, i risultati non sono così appaganti come nei precedenti film di Fassbinder. L’idea è che la pellicola appaia scissa tra due propositi: da una parte la commedia drammatica con la storia d’amore in primo piano tra il giornalista sportivo Robert e Veronika, dall’altra il “lato oscuro” dal quale emerge la figura nosocomiale della dottoressa Katz come personificazione del male. Questa oscillazione di tono, accompagnata da un tema musicale ripetitivo che privilegia l’uso spropositato del tamburo, danneggia il film. Può renderlo più coinvolgente perché di facile comprensione nella sua immediatezza ma, alla lunga, corre il rischio di stancare.

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