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Shelley

Regia di Ali Abbasi vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Shelley

di maurizio73
4 stelle

C'è del marcio in Danimarca...per un film che cita il Polanski di Rosmery's baby, sembra l'Anthicrist di Von Trier e finisce come il The Grudge di Shimizu, proiettando la oscura nemesi di parti mancati sull'infausto destino degli abitanti del luogo che hanno stretto l'immondo patto di una maternità surrogata.

Assunta da una coppia di coniugi danesi che abitano in una baita isolata senza acqua corrente nè elettricità, la giovane governante rumena Elena accetta di fare da madre surrogata per il figlio che i due non sono ancora riusciti ad avere. La gravidanza però diviene più complicata del previsto e la ragazza comincia ad essere afflitta da un incomprensibile deperimento fisico e da inquietanti visioni di morte.

 

locandina

Shelley (2016): locandina

 

C'è del marcio in Danimarca...L'incipit letterario sembra proprio suggerire lo sfondo di una vicenda che assume nel titolo e nel soggetto le sue lugubri connotazioni orrifiche legate alla declinazione di un motivo vampiresco che, se non richiama tanto il Polidori della famigerata compagine creativa, lo fa per il Carmilla di Le Fanu come per la più cinematografica iconografia polanskiana di un passeggino nero in campo rosso. Ovviamente i richiami e le citazioni (l'utero in affitto transilvano, la location isolata tra le lacustri brume danesi, una coppia infertile di coniugi apparentemente cordiali, una mefistofelica gestazione che reclama sangue e dispensa morte) sono messe lì a bella posta per conferire ad una messa in scena di sottile ambiguità naturalistica le sue connotazioni di thriller macabro in cui poco viene mostrato e molto suggerito, agitando il sospetto di una minaccia incombente che sembra trarre dalla placida amenità del luogo e dalla trasgressione di un ordine naturale delle cose (se non puoi avere un figlio, un motivo ci sarà pure!) gli inquietanti clichè di una inarrestabile progressione drammatica. La maternità insomma, come stato patologico a cagione di un succhiasangue a ufo o di un emissario del demonio in erba non è certo una novità, ma qui il meccanismo si fa più sottile e riesce a suscitare per due terzi del film un interesse residuale anche nello spettatore più scafato. C'è da dire che il giochetto funziona fino ad un certo punto, accumulanto molti, troppi spunti che si perdono nella inconsistenza di un finale che rimane volutamente oscuro e fantasmatico, disperdendo il potenziale di psicologie border line (la bionda vichinga vittima di isterectomia, un Rasputin ossuto dotato di poteri mesmerici, un aitante naturista che potrebbe averle entrambe) e precipitando le ragioni di tanto orrore nel cul de sac di una manipolazione caprina.
Insomma cita il Polanski di Rosmery's baby, sembra l'Anthicrist di Von Trier e finisce come il The Grudge di Shimizu, proiettando la oscura nemesi di parti mancati sull'infausto destino degli abitanti del luogo che hanno stretto l'immondo patto di una maternità surrogata. Suggestive le atmosfere di una natura misteriosa e ostile ottimamente fotografata, come pure la pertinenza di alcuni intermezzi onirici che perturbano la tranquillità di un menage domestico attraversato da un oscuro presagio di morte. Algida e respingente la bellezza della scandinava Ellen Dorrit Petersen e decisamente più rassicurante quella della virginale innocenza di Cosmina Stratan (Oltre le colline). Presentato nella sezione Panorama al Festival di Berlino 2016 e, non poteva mancare, al Transilvania International Film Festival. E poi dicono che il diavolo si vede nei dettagli!

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