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La corte

Regia di Christian Vincent vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La corte

di Theophilus
8 stelle

L’HERMINE

 

Il protagonista del film è un altissimo togato che viene comicamente svilito da testimoni, imputati o quant’altri vengono a contatto con lui che, anche senza volerlo, gli si rivolgono con titoli che, di fatto, lo declassano. Non è amato da giudici e avvocati che gli hanno affibbiato il titolo di “magistrato a due cifre”, perché, con lui, gli imputati non possono mai aspettarsi una condanna inferiore ai 10 anni. Gli stessi, poi, gli sparlano alle spalle: la moglie lo ha scacciato per cui ora lui vive in albergo e lo avrebbero visto uscire ubriaco da un bordello…

Ma Xavier Racine ha un soprassalto improvviso – o, meglio, quasi un’epifania tutta interiore, impercettibile all’esterno – il giorno in cui Ditte Lorensen-Coteret viene nominata fra i giudici popolari che dovranno deliberare sulla colpevolezza o meno di un imputato accusato di avere ucciso la figlia di pochi mesi.

Si apre così, imprevisto, un secondo piano del film.  I due momenti danno luogo ad una nuova dimensione che li comprende, in cui l’uomo di legge inflessibile (caratteristica in effetti solo desunta dai giudizi poco lusinghieri di chi gli sta accanto) si rivela conscio che la verità non sempre riesce a venire a galla: l’importante è che la giustizia e la legge mantengano inalterato il loro ascendente e che siano preservate da ogni dubbio precostituito, così come sembra trovarsi una corrispondenza fra la “giustezza” dell’amore e quella della giustizia.

Si penserebbe a torto che l’asse del film sia prevalentemente incentrato sull’aspetto morale e didascalico. Infatti, anche se lo svolgimento della storia si attua quasi interamente all’interno dell’aula di un tribunale e il corso del drammatico processo viene seguito in modo minuzioso, si coglie impercettibilmente che la “verità” non è là, o, per lo meno, non è solo là che va ricercata. L’interiore rigenerazione affettiva dell’uomo in ermellino (così ci ricorda il titolo originale, modificato in “La Corte” nelle nostre sale) ci mostra un vero essere umano. Un uomo dimesso, in cui si riaccende una sorta di fuoco adolescenziale tutto interiore al contatto di una donna che, probabilmente, Xavier Racine ormai disperava di poter rivedere o, forse, nemmeno pensava che esistesse nella realtà.

Ditte, di origini danesi, è anestesista all’ospedale di Calais, presso cui Xavier ha dovuto subire un intervento chirurgico anni addietro. Gli occhi di lei, gli ultimi visti prima di cadere addormentato e i primi a rincuorarlo al suo risveglio, gl’infondono fiducia e una speranza che spingono l’uomo ad uscire da se stesso. Di lei vediamo sempre e quasi solo gli occhi. Uno sguardo rassicurante e rasserenante. Nulla di esteriore viene fatto trapelare. Nessuna molla sensuale viene messa in moto dalla donna, in cui l’uomo e lo spettatore vedono solamente la bellezza di un volto aperto, luminoso e “classico”.

Solo un cenno viene fatto ad un abito indossato da Ditte e che le avrebbe messo in risalto le forme. E il vestito fa la sua, pudica, apparizione alla fine, a legittimare definitivamente le speranze di Xavier.

Ha un che di stilnovista questo amore rappresentato nel film, una inattesa e gradevole forma di ribellione ai dettami della contemporaneità. Nulla a che vedere con i frequenti ed esulcerati accessi passionali a cui ci ha abituato la cinematografia, o con la demenziale pornografia televisiva. Questa sorta di freschezza compassata (se ci si passa l’ossimoro) è ben rappresentata ed inquadrata da Fabrice Luchini (tutto fuorché un sex symbol) e credibilmente sostenuta anche dalla matura bellezza di Sidse Babett Knudsen. Il film è diretto da Christian Vincent.

Enzo Vignoli,

7 luglio 2016

 

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