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Il figlio di Saul

Regia di Laszlo Nemes vedi scheda film

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La recensione su Il figlio di Saul

di Peppe Comune
9 stelle

Saul Auslandere (Géza Rohrig) è un internato di un lager nazista. Fa parte del sonderkommando, una sezione speciale addetta alla cremazione dei cadaveri fatti morire nelle camere a gas. Un giorno, tra i tanti corpi ammassati, riconosce quello di un ragazzo che dice essere suo figlio (Gergo Farkas). Nasconde il corpo del ragazzo mettendosi contro  il volere degli altri membri del sonderkommando, i quali credono che questo comportamento  “anomalo” di Saul possa mettere a repentaglio il progettato tentativo di rivolta all’interno del campo. Ma Saul non sente ragione, l’unico suo scopo ormai è quello di trovare un rabbino per garantire al ragazzo una degna sepoltura.

 

Géza Röhrig

Il figlio di Saul (2015): Géza Röhrig

 

“Il figlio di Saul” del regista ungherese Laszlo Nemes (allievo di Bela Tarr), è uno dei film più belli che mi sia capitato di vedere sui campi di concentramento nazisti, un viaggio disturbante dentro l’orrore di un lager, tutto filtrato attraverso gli occhi di Saul, un uomo che, avendo perso la vita, cerca di dare un senso alla morte. É quasi un film in soggettiva tanto è ossessivo il modo in cui la macchina da presa segue Saul, davanti, da dietro, di lato, come una cosa viva e dinamica (proprio alla maniera del maestro), accrescendone lo stato febbrile e facendocene avvertire tutta l’ansietà emotiva. Insomma, è cinema puro, che attraverso l’uso sapiente degli strumenti cinematografici si mette al servizio di una riflessione approfondita e rinnovata sul tema dell’olocausto. A cominciare dal tenere volutamente lo sfondo fuori fuoco (soft-focus) rispetto a Saul, funzionale ad accrescere la sua posizione di isolamento rispetto all’ambiente circostante, di estranietà incondizionata, sia dai carnefici che dalle vittime designate come lui. Saul viene reso un alieno insistendo sul capovolgimento del punto di messa a fuoco, per cui, più importante dello spazio dove si consuma l’orrore, è la singola volontà umana che a quell’orrore si ostina ad opporvi uno scopo. Questo scopo diventa garantire una sepoltura degna al figlio, ovvero, ad un ragazzo che è sicuramente suo figlio anche se non sappiamo se lo sia veramente. E neanche ci deve interessare saperlo. Perché il figlio di Saul è il figlio di tutti, è il figlio dell’innocenza violata, della vita brutalizzata, bell’orrore regolarizzato. Il figlio di Saul non è solo un corpo che si vuole restituire alla nuda terra, è ciò che vogliamo non succeda mai più. “Hai sacrificato dei vivi per salvare un morto”, rinfacciano a Saul gli altri internati del sonderkommando, che cullano la speranza di una rivolta come tentativo estremo per salvarsi la vita. Ma la morte è dappertutto, pensa Saul dalla prospettiva del lager, non gli si può sfuggire : in un mondo totalmente disumanizzato, più che pensarsi vivi per il semplice fatto di respirare ancora, occorrerebbe ripensare  alla vita dando un valore alla morte. Fosse solo come unico ed ultimo tentativo di riscatto morale. Come ci suggerisce il finale, quando di fronte alla vista di un ragazzino curioso (un altro figlio di Saul), l’uomo accenna un sorriso liberatorio :  adesso può morire in santa pace.

A mio modesto avviso, i primi sette minuti del film sono definitivi sul tema dell’olocausto, per il crudo realismo con cui viene rappresentato l’orrore dei lager nazisti, asciutto ed essenziale,  senza eccessi spettacolari o gratuita esibizione della morte. Lasciando solo che le immagini aderiscano all’abominio umano che si compie. Si parte con delle immagini sfocate, che dopo pochi secondi accolgono la nitidezza del volto di Saul. Quindi, dei movimenti concitati di macchina ci fanno entrare nell’atmosfera tragica del luogo, tra soldati tedeschi che sputano ordini, Kapò che si preoccupano di farli rispettare con modalità terroristiche, e i sottoposti come Saul che li devono eseguire velocemente. É arrivato un convoglio di “ebrei inservibili” , inutili per la vita del campo e quindi destinati subito al macello. Le immagini catturano sempre la gravità del luogo, ci siamo dentro, vediamo i “nuovi arrivati” entrare in un grande capannone come una mandria di animali, disorientati, impauriti, fatti spogliare dei loro indumenti. Intanto, una voce off avverte che loro “sono proprio le persone che ci servono per l’officina”, che verranno assegnati a dei posti particolari all’interno del campo a seconda del mestiere che sanno svolgere. La voce li esorta a sbrigarsi a fare la doccia, altrimenti “la zuppa si raffredda”. Poi li si vede tutti nudi fatti entrare in un grande stanzone, sempre la voce off li invita a “non dimenticare il numero del gancio” dove ognuno ha lasciato i propri  vestiti. Che sadica crudeltà. La porta si chiude, Saul e gli altri rovistano velocemente nei vestiti dei “nuovi arrivati”. Dopo pochi secondi si iniziano ad udire delle urla strazianti, urla che ti entrano nelle ossa. Agghiacciante.

Il tutto si svolge con due piani sequenza e facendo un uso affatto ricattatorio (pericolo sempre in agguato dato il tema) della messinscena, tutt'altro. Ne “Il figlio di Saul”, non si fa dell’esercizio di stile fine a se stesso, ma si usa uno stile particolare per fornire una sensata testimonianza su un male assoluto. Grande cinema.  

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