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Il figlio di Saul

Regia di Laszlo Nemes vedi scheda film

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La recensione su Il figlio di Saul

di OGM
9 stelle

Un capolavoro di tenacia e rigore espressivo. Un film insostenibilmente vero.

Non preoccuparti, Saul. Nessuno ti vede. Quelli che ti senti puntati addosso sono gli occhi della Verità. Solo lei rimane, nei luoghi dai quali tutti vorrebbero scappare. Soprattutto perché la stessa umanità se n’è andata ormai da tempo. Tu, però, ci sei. Sei forse l’unica certezza, l’unico soggetto su cui valga la pena di concentrarsi, con un po’ di attenzione, con il dovuto rispetto. Sei al servizio degli assassini della tua gente, ma la ragione è dalla tua parte. Sarà per questo che tutto il resto, intorno a te, non è nient’altro che un’immagine sfocata. Saul Auslander è ungherese, ebreo, prigioniero in un campo di sterminio, un membro della squadra addetta alle camere a gas. È complice attivo di un inganno mortale. Eppure la sua morale resta una presenza vigile, inflessibile, forte come la roccia. Pratica il male senza mai smettere di credere al bene, anche a quello che travalica i confini della vita, ed è interamente nelle mani di Dio. Ciò che conta è continuare a seguire quella voce interiore che si fa legge celeste, e mantiene l’anima pulita, immune ai residui dell’odio, alle scorie della paura. Saul è disposto a qualsiasi cosa pur di obbedire a quel richiamo: i defunti vanno sepolti, e bisogna recitare una preghiera, che li accompagni nel viaggio. C’è un ragazzo che, in mezzo a milioni di vittime innocenti, il destino ha deciso di affidare a lui. Nel giro di pochi minuti, Saul lo ha visto sopravvivere e poi finire ucciso. In un attimo è divenuto suo figlio. E allora il mondo ha cominciato a girare intorno a quell’idea, a quella missione da compiere, di fronte alla quale gli eventi  sono solo l’inevitabile contorno di una messa alla prova. Il Signore ha scelto per lui uno scenario infernale, a cui Saul non può sottrarsi, a cui deve partecipare attivamente. E intanto deve rimanere fedele a quel dovere che supera ogni orrore, ogni miseria, ogni perdita di senso. Nessuno capisce quanto quell’imperativo sia grande, potente, imprescindibile. I suoi compagni sono avvolti dalle nebbie del relativismo, che piega la coscienza alle circostanze, che si adegua e non si pone domande, soprattutto quando le condizioni sono estreme. Sono tutt’uno con l’azione della Storia, sono i decori della sua scena, i gesti ben amalgamati all’architettura meccanica e diabolica di un’industria di morte. Saul è un punto fermo nell’oceano convulso della distruzione totale, quella che ha fatto tabula rasa di ogni cosa, soprattutto della ragione e della sua capacità di distinguere, di ribellarsi all’impellenza dei bisogni più primitivi, di resistere all’annientamento di sé. Dentro di lui, è un’altra necessità a regnare sovrana. Non è meno schiacciante e categorica  dell’istinto di sopravvivenza, è altrettanto rigida, sorda e ottusa, tanto da trasformare il suo volto in una maschera immutabilmente inespressiva, si direbbe avulsa dalla realtà. La sua fissità è la corazza che preserva la singolarità dal suo azzeramento nell’informità della moltitudine, che qui è una coralità spersonalizzata, un ammasso promiscuo di mostri e cadaveri,   di stracci e cartacce, di  fuoco, acqua, cenere e sangue.  L’uno si impone su tutti. Si sostituisce ad esso, per poter amare e scegliere, come si fa da individuo a individuo, come Saul e suo figlio. Un rapporto esclusivo che, contrariamente all’indifferenza, al cinismo generalizzato, si realizza  dentro i confini limitati e discreti dell’intimità,  dove lo spazio è piccolo, e ci si può stringere l’un l’altro in un abbraccio. È l’oasi segreta in cui si cerca riparo, e in cui si va per piantare, nel deserto dell’assurdo finale, la fragile bandiera della propria identità.

 

Saul fia, candidato ungherese agli Oscar 2016, si è aggiudicato il premio come miglior film in lingua straniera. 

 

Géza Röhrig

Il figlio di Saul (2015): Géza Röhrig

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