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L'uomo invisibile

Regia di James Whale vedi scheda film

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La recensione su L'uomo invisibile

di Stefano L
8 stelle

L'uomo invisibile (James Whale, 1933) – CineFatti

 

Dopo oltre otto decadi dall’uscita, “L’uomo invisibile” si conferma una pietra miliare del filone sci-fi ed un classico del genere thriller. Whale, demiurgo hollywoodiano dal curriculum lodevole (basta dargli una veloce occhiata), ha affrontato, con grande raffinatezza stilistica e gusto grottesco, una fantasia anelante ampiamente diffusa nell’immaginario collettivo (ispirata all'omonimo romanzo di Wells): Claude Rains (Jack Griffin) si concede in una (non) incarnazione mefistofelica ossessiva e perversa, profilando uno degli antieroi più affascinati di sempre. Uno sviluppo psicologico scellerato, dapprima compassionevole, poi traboccante di manie prevaricatorie sui “comuni mortali”, delinea una figura empatica e, allo stesso tempo, estremamente inquietante. I penetranti grandangoli, mirati ad inquadrarne l'iconica sagoma dal basso, rendono le pianificazioni dei misfatti e i monologhi sul dominio della Terra veramente evocativi ed angoscianti. La rabbia di Griffin in seguito alla metamorfosi dall’aspetto imponderabile implode nella schizofrenia: reo di aver cercato di oltrepassare i limiti invalicabili dell’esperienza empirica e della ragione, nel momento in cui cercano di sfrattarlo dalla locanda dove alloggia, decide di ribellarsi verso una società che non l'accetta, cominciando a eliminare gli ostili cittadini e i bigotti membri delle forze armate. Da lì cambia completamente la sua prospettiva sullo scopo della scienza; invece di servirsene per nobili propositi, approfitta dell'arcana condizione ribellandosi sull’intera umanità. Impudenza e crudeltà si impadroniranno di lui, trasformandolo in un cinico misantropo che già immagina di conquistare il mondo usufruendo della nuova preziosa formula chimica al fine di generare un esercito invincibile. Nemmeno la passione nei confronti dell'ex amata (Gloria Stuart) lo fermerà... Il comparto tecnico si avvale di trucchi visivi eccellenti e ancora godibilissimi (la prima scena in cui il protagonista si leva le bende, rivelandosi nella reale mutazione, è tuttora una sequenza di forte suggestione sensoriale). Il b/n brumoso della rappresentazione urbana/rurale/aristocratica, ad esempio, amplifica la qualità artistica dell’espressione filmica, assegnando alle ambientazioni un aspetto lugubre; molto bravi altresì Henry Travers, la Stuart e William Harrigan, i quali, invece di soffermarsi a dei ruoli “sussidiari”, riescono a spalleggiare perspicacemente Rains in modo da renderne tangibile la tetra caratterizzazione. Qualcuno, comunque, potrebbe non accettare di buon grado la recitazione sopra le righe del resto dei personaggi, che nondimeno si dimostrano delle discrete maschere farsesche nell’intera durata della fosca storia (quell’aura di austero pessimismo doveva pur lasciar spazio a qualche strambo sprazzo burlesco, o meglio comicamente melodrammatico). Ciononostante, questo cult va riscoperto, in quanto dà lezioni di cinema in ogni fotogramma.

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