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Elle

Regia di Paul Verhoeven vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Elle

di amandagriss
9 stelle

 

Il fascino discreto della borghesia: una risata ci salverà

 

C’è un momento nel film, quando la compagna del figlio della Elle del titolo (un’immensa Isabelle Huppert) partorisce, che può fungere da chiave di lettura per l’ultima opera dell’olandese ‘terrorista della morale’ Paul Verhoeven.

Da qui in poi il regista, complice una sceneggiatura sovversiva assolutamente perfetta per le sue corde smaccatamente iconoclaste, inanella una serie di situazioni inequivocabilmente ridicole ma mai caricaturali, limpidamente assurde, costruite per mezzo di gesta ignobili (come viene detto nel film stesso), prive di pudore e tantomeno di vergogna, moralmente inaccettabili (per chi ancora crede che possa esserci un’etica da difendere e secondo la quale vivere), che danno l’esatta misura di cosa siano -oggi soprattutto- le relazioni umane e quale valore venga attribuito alle persone, siano esse madri, ex mariti, amici, vicini di casa, timorate di dio, amanti, parenti e parenti acquisiti, colleghi di lavoro (soci, capi e sottoposti).

Un microcosmo di serpi o, forse è meglio dire, di mostri dal bell’aspetto, a rappresentanza del genere umano tutto o, almeno, di una certa categoria sociale, benestante-potente-vincente (per merito o per questione di culo non ha importanza), che nei suoi clamorosi scivoloni cade sempre in piedi, nascondendo sotto il tappeto di una metaforica accomodante-conveniente cecità la polvere sollevata al suo devastante passaggio (con il beneplacito silente dei reietti ‘fuori casta’) e che un Verhoeven in grande spolvero si diverte a smascherare usando le stesse armi con le quali essa abitualmente si destreggia e si fa strada (mietendo vittime) in un mondo piegato a sua immagine e somiglianza, destinato a piegare e a piagare di conseguenza, con l’unico scopo -e in tale, specifico, contesto la cosa diventa lampante- di assecondare le proprie inclinazioni nascoste e soddisfare i propri egoistici malati desideri.

Qualunque essi siano.

Ma in Elle -ed è questo il fattore di un film riuscitissimo, straordinario, tremendamente attuale, a suo modo agghiacciante- ciò che è marcio, malato, corrotto, deviato, incrinato, perverso è praticamente sinonimo di normalità.

Le aberrazioni sono oramai pane quotidiano, si convive con esse in maniera del tutto pacifica, non comportano nessun conflitto esistenziale degno di nota; sono ciò che si definisce “prassi”, “normale amministrazione”.

Si accetta l’inaccettabile assurgendolo a stile di vita condiviso, spesso, con l’aggravante di non rendersi conto fino in fondo, perché oramai percepita come una condizione naturale, della putrida fanghiglia in cui si è immersi fino al collo ed oltre e che ha finito col diventare a tutti gli effetti una seconda pelle.

E anche quando lo spesso velo di assuefazione al putrido viene squarciato dall’insorgere di qualche sparuto rigurgito di dignità, quando si fa avanti l’indignazione ed il disgusto, questi nobili sentimenti si traducono solitamente in belle parole e fatti zero o incoerenti con quanto dichiarato quando non addirittura agli antipodi, utili a consolidare quella impalcatura di perbenismo ipocrita dietro cui trincerarsi e rendere credibile l’immagine tutta di facciata, sana-saggia-irreprensibile, minuziosamente costruita.

 

 

Figlia di quel marcio che l’ha resa altrettanto marcia, la nostra Elle, è, tuttavia, una mosca bianca, una stronza col botto definita tale perché non le manda a dire, perché per quanto sguazzi allegramente nella pozza di fango insieme ad un esercito di suoi pari, possiede, a differenza loro, un inossidabile senso della realtà che l’ha mantenuta viva e tenuta fino ad oggi magnificamente a galla, facendola superare fieramente l’impossibile, rafforzandone in maniera adamantina il carattere.

Lei continua ad avere gli occhi aperti e ci vede benissimo, chiama le cose con il proprio nome, è consapevole fino al midollo della sua lercia natura e di quella di chi la e si circonda. Non sfugge alle brutture, non rimuove l’orrore che la ghermisce fingendo che non sia mai esistito, ma fa del passato, delle esperienze che ha accumulato il bagaglio per fronteggiare il presente. Conserva, nonostante tutto, un suo (per quanto discutibile) codice morale, di cui gli altri sono tristemente sprovvisti.

 

Verhoeven non risparmia nessuno, riserva la sua dose di calci sui sorrisi preconfezionati a chiunque graviti nel suo raggio d’azione filmica.

Il controllo sui generi, che abilmente amalgama, e sul ventaglio di registri applicati alla pellicola rendono Elle un lavoro sicuramente coraggioso, spiazzante (si parte col thriller violento a sfondo sessuale e si conclude in farsa), intelligente per come riesce a farsi provocatorio e ribaltare situazioni comuni trasformandole in sapida burla, a sfidare il bel pensiero dominante nonché la morale individuale chiamando in causa il singolo spettatore, invitandolo a partecipare alla folle depravata orgia messa su con lucida cognizione di causa.

Testandone la capacità di discernimento tra il riconoscere o meno che trattasi di un parossistico quanto raffinatissimo gioco al massacro sulle virtù pubbliche e i vizi privati.

Sondandone il grado di spirito critico col quale ognuno guarda al mondo.

Basti proprio pensare alla scena del parto citata all’inizio: vediamo tutti, distintamente, quello che ci viene mostrato, ma il contesto fino a quel momento fedele ad una verosimiglianza tale e così presa sul serio da non concedere, non ancora perlomeno, letture espressamente grottesche, ci sorprende impreparati innanzi allo sberleffo di lì a pochi istanti manifesto, utile a svelare l’ottica prediletta-prescelta dal regista alla quale poi allinearci.

Sarebbe stato interessante registrare la reazione di una sala gremita di spettatori, ma pur tra pochi intimi il verdetto appare inconfutabile: per un momento i presenti disseminati sulle comode poltroncine non emettono un fiato, nessuno reagisce all’istante, tutt’al più ci si scambia un muto reciproco sguardo d’incredulità con il vicino di bracciolo come per accettarsi che i rispettivi occhi non abbiano fallito nell’osservare la scena, e la mente, seppur per pochi impercettibili attimi, non abbia vagato altrove.

E intanto la pantomima, quella che coinvolge gli spettatori come gli attori, continua, simbioticamente, fino ad annullare la differenza tra pubblico e commediante, come se nessuna anomalìa, dentro e fuori lo schermo, avesse fatto mai capolino.

Si finge (o si giudica passabile, “ci può stare” come si dice adesso), all’unisono, che tutto vada per come dovrebbe andare e così si persegue, imperturbabili, nel disastro.

È ciò che accade, ovunque.

E se in sala non fosse partita quella risata -fortunatamente contagiosa- come reazione naturale alla paradossale scena ‘incriminata’ dopo un momento di comprensibile disorientamento (sicuramente studiatissimo dagli addetti ai lavori), rivelatrice della presenza, anche residuale, di una “fu” coscienza morale, quale atteggiamento avrebbero mantenuto quei pochi in sala per il resto della visione? Di accettazione passiva, forse?

Si sarebbero verificati ulteriori momenti d’ilarità generale ad attestare e supportare la portata satirica, per quanto non apertamente dichiarata, del film?

Oppure il teatro dell’assurdo possibilissimo, o grand guignol addomesticato (che dir si voglia), sarebbe filato liscio come l’olio detonandone la carica esplosiva?

Fallendo miseramente per giungere alla preoccupante conclusione che il genere umano è messo peggio di quanto creda di essere già?

 

 

 

 

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