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The Hateful Eight

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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H Bakshi

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La recensione su The Hateful Eight

di H Bakshi
8 stelle

Essenzialmente tarantiniano: prendere o lasciare. Per me, un film da vedere e rivedere

Ho visto questo film in due occasioni: la prima al cinema, la seconda a casa, dopo due anni. La prima visione mi aveva lasciato un po’ perplesso. Considerata la variabilità dei set ai quali Tarantino ci aveva abituati da Pulp Fiction in poi, per tutto il film mi ero aspettato qualcosa di diverso da ciò che stavo vedendo. Mi sono però reso conto della raffinatezza dell’opera e sono rimasto affascinato dall’originalità dei dialoghi (tipicamente tarantiniani) e dalla bravura degli attori: tutti. Alla fine ho pensato che Tarantino avesse riproposto le sue iene, con un dispiego di mezzi e di tecnica ben diversi dal film che avevo tanto apprezzato. Nulla di nuovo (in fondo Hitchcock ha rifatto “l’uomo che sapeva troppo” come lo voleva lui) e ogni artista avrebbe il diritto di creare un’opera solo per se stesso, ma lo può fare solo quando e se il suo “marchio” basta ad assicurargli un certo successo al botteghino. Tarantino ha profuso quindi in questa riedizione delle iene tutte le sue “ossessioni”, ha fatto, in effetti, un film per sé stesso (non è da tutti), ci ha messo l’anima ma, alla fine, non ha creato un film originale come quelli precedenti e il suo “prodotto”, questa volta, non è destinato a lasciare una traccia profonda. La seconda visione è stata più meticolosa (almeno per un non addetto ai lavori come me) e, conoscendo la traccia, ho apprezzato ancor di più l’argutezza dei dialoghi, la fotografia ed anche le imperfezioni esibite. Questa volta, l’effetto “imperfezione”, che in Grindhouse è stato ottenuto con il banale effetto “pellicola rovinata” è stato ottenuto in maniera più raffinata: ad esempio con il goffo flashback dello sterminio di Minnie e dei suoi amici, con l’insistere sull’illuminazione eccessiva del tavolo in un ambiente scuro (come si era già visto nell’incipit di Bastardi senza gloria, nella casa del contadino), con l’uso plateale e sproporzionato del cambio di fuoco ecc. Insomma, se Tarantino, regista “postmoderno” ha preso a piene mani dal cinema che è arrivato prima di lui, questa volta fa un salto ulteriore e, nel citarsi, prende un po’ in giro sé stesso. Nello stesso tempo dimostra una lucidità e una perizia difficilmente superabili. A posteriori, ho letto che il film sarebbe stato concepito come un “cripto-remake” de “La cosa” di Carpenter. Non lo si può certo negare: ci sono la claustrofobia, il freddo, Kurt Russel, le musiche di Morricone, lo splatter, il finale e le stesse dichiarazioni di Tarantino ma alcuni aspetti restano originali. Ne “La cosa dell’altro mondo” di Nyby (e Hawks), del 1951 il mondo è diviso in buoni e cattivi ed il mostro, per quanto inquietante, è chiaramente isolato e l’ottimismo trionfa; ne “La cosa” di Carpenter, del 1982, all’inizio ci sono cameratismo e fiducia per poi arrivare alla paranoia. Nel film di Tarantino l’uomo è solo di fronte alla natura ed agli altri uomini fin dall’inizio. Nessuno si fida di nessuno, per ogni volta che una pistola arriva a sparare, sono dieci le volte in cui la mano viene portata alla pistola. Ma tutto avviene lo stesso, in maniera inesorabile: è il mondo de “Le iene”, un mondo alla Tarantino: prendere o lasciare.

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