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L'ultimo Apache

Regia di Robert Aldrich vedi scheda film

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La recensione su L'ultimo Apache

di ed wood
9 stelle

Non ho proprio senso definire "L'ultimo Apache" un western "filo-indiano". L'ideologia aldrich-iana, qui già pienamente dispiegata, è di estrema ambiguità: gli eroi di Aldrich sono fieri individualisti, ostili ad ogni forma di compromesso, tanto perseguitati dal Sistema quando feroci e terroristi, un po' come quelli di Milius e Cimino. Sono "anarchici di destra", per dirla con un paradosso. In questo post-western, le Indian Wars sono quasi terminate, Geronimo si è arreso ed è già oggetto di culto e di reportage fotografici, gli Apache vengono deportati nelle riserve e i Cherokee si sono "imborghesiti" sostituendo la caccia con l'agricoltura: a questa rassegnazione (forzata) dell'intera civiltà indiana a usi e costumi dei cowboys, Massai si oppone con forza e disperazione ("Vivrò ancora per uno, al massimo due o tre anni"), sopportando tradimenti e agguati. Ma la complessità del personaggio comporta anche un sommesso desiderio di mettere radici, di farsi una famiglia, di accettare con onore quel compromesso tanto scongiurato. Lancaster è bravo ad evitare il ridicolo, nonostante l'apparente monotonia del suo personaggio; ben delineata e insolitamente profonda anche la figura femminile, mentre i bianchi vengono impietosamente ritratti in tutta la loro meschinità. Grande senso del paesaggio e puntigliosa ricostruzione d'ambiente, con risvolti realisti in anticipo sui tempi (davvero evocativa la rappresentazione notturna di St.Louis). Stilisticamente, infine, Aldrich fa saltare dall'interno le convenzioni del cinema hollywoodiano classico, a forza di barocchismi, inquadrature stravaganti, echi wellesiani, rimandi alle avanguardie espressioniste e formaliste, montaggio esplosivo: la tensione fra tradizione e rottura, fra linearità e irregolarità è uno dei motivi di fascino del cinema "irrequieto" dei traghettatori dei generi americani verso la modernità: Aldrich, Fuller, Ray e prima di tutti, John Huston.

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