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L'ultimo Apache

Regia di Robert Aldrich vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'ultimo Apache

di rocky85
8 stelle

 “Sarebbe una bella morte, vero? Morire da guerriero. Ma non sei più un guerriero ormai. Sei solo un indiano sconfitto. Nessuno canterà il tuo coraggio”.

Arizona, settembre 1886. Il capo apache Geronimo firma la resa del suo popolo a Skeleton Canyon, davanti all’esercito statunitense, ponendo fine così ad anni di guerre e scontri feroci. Ma durante il viaggio verso le riserve nelle quali gli indiani dovranno essere confinati, l’ostile e orgoglioso guerriero apache Massai (Burt Lancaster) riesce a fuggire e dà vita ad una guerra solitaria e ostinata nei confronti dei “visi pallidi”.

Dopo una gavetta come regista televisivo e un film d’esordio (Il grande alleato) passato inosservato, Robert Aldrich realizza con L’ultimo Apache il suo primo vero exploit cinematografico, sotto l’egida del divo e produttore indipendente Burt Lancaster, grazie al quale dirigerà nello stesso anno anche il magnifico Vera Cruz, interpretato da Gary Cooper e dallo stesso Lancaster. L’ultimo Apache è un western coraggioso, perché tra i primi ad affrontare le guerre indiane dal punto di vista del nemico pellerossa, visto non più come un insensato assassino feroce ma come un fiero guerriero che combatte per la propria libertà. Il cinema americano aveva cominciato da alcuni anni (L’amante indiana di Delmer Daves e Il passo del diavolo di Anthony Mann sono entrambi del 1950) a fare i conti con il proprio passato di violenti conquistatori, anche se gli indiani avevano ancora il volto delle belle star hollywoodiane. Così qui appare un po’ strano vedere l’atletico Burt che, con i suoi occhi azzurri, impersona un apache dai lineamenti e dal viso scuro tipico degli indiani. Ma, superato l’impatto iniziale, Lancaster si rivela l’interprete adatto per il fiero Massai: passo svelto, poderosa stazza fisica, rocciosa caparbia e l’agilità che compete ad un ex atleta come lo era stato lui in giovinezza.

Aldrich, con una regia virtuosistica ed originale e grazie alla magnifica e fiammeggiante fotografia di Ernest Laszlo, soprattutto nella prima parte si scaglia violentemente contro la barbarie del popolo bianco, mostrando un profondo rispetto per chi, invece, è destinato a soffrire silenziosamente. Il regista ci mostra l’orgoglio di un popolo che ha sete ma che non può accettare l’acqua da un soldato bianco; o ancora l’ingenuità degli indiani quando vengono messi sul treno e gli vengono chiuse le tendine, perché a detta di un idiota comandante, “anche gli Apache hanno paura dell’ignoto”. Splendida è poi la sequenza dell’arrivo notturno a St. Louis, quando Massai si stupisce vedendo per la prima volta in vita sua negozi, ristoranti e, impaurito da un cagnolino, attira l’attenzione dei cittadini che gli si rivoltano contro. Ma soprattutto Aldrich dà vita al suo primo eroe cinematografico, contraddistinto dai tratti che saranno tipici dei suoi personaggi: furore, fierezza, isolamento. Nella seconda parte comincia invece a fare capolino un certo ottimismo. Innanzitutto legato al rapporto tra Massai e la bella squaw Nalinle (Jean Peters, splendida e bravissima) innamorata di lui: inzialmente Massai vorrebbe ucciderla perché pensa che lei lo abbia tradito, poi le resiste perché “l’amore è per gli uomini che non devono guardarsi alle spalle, che possono vivere nello stesso posto estate e inverno”; infine capisce l’amore sconfinato che la donna prova per lui e decide di sposarla. Ma è nel finale che Aldrich cambia il suo punto di vista, obbligato anche dallo stesso Lancaster che impone per il film una sequenza conclusiva conciliatoria e meno pessimistica. Massai, che sta per diventare padre, decide di abbandonare il suo destino da guerriero e di diventare un contadino, piantando un campo di mais con dei semi che gli erano stati regalati da un indiano cherokee. Perché proprio i cherokee hanno capito per primi che “l’uomo bianco mangia tutto l’anno perché coltiva il proprio cibo”. Gli indiani possono vivere insieme all’uomo bianco soltanto se vivono “come” lui. Punto di vista ottimistico che riduce la carica eversiva iniziale, e che costituisce forse l’unico punto debole del film ma che propone comunque un'unica via d’uscita. La tolleranza. La pace. La convivenza.

 

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