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Captain Fantastic

Regia di Matt Ross vedi scheda film

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La recensione su Captain Fantastic

di Sofia62
8 stelle

A volte l’ottimo è nemico del bene. Così recita un famoso detto e questa sembrerebbe anche la sintesi della trama del film in questione. Una famiglia numerosa – il padre Ben (Viggo Mortensen), la madre (che però non si vede mai nel film se non in foto, nei sogni o post mortem) e 6 figli – vive in mezzo ad un bosco, lontano dalla cosiddetta civiltà.

A volte l’ottimo è nemico del bene. Così recita un famoso detto e questa sembrerebbe anche la sintesi della trama del film in questione. Una famiglia numerosa – il padre Ben (Viggo Mortensen), la madre (che però non si vede mai nel film se non in foto, nei sogni o post mortem) e 6 figli – vive in mezzo ad un bosco, lontano dalla cosiddetta civiltà. Il loro guru è il famoso linguista e attivista politico Noam Chomsky di cui festeggiano pure la giornata (the Noam Chomsky’s day). La loro vita è sana: tutti i figli, anche i piccoli che sembrano avere tra i sei e gli otto anni, sanno cavarsela in tutto; sono studiosi e colti; sanno scalare i picchi montani; sanno accendere un fuoco e procurarsi il cibo con le loro mani. Insomma: vivono in un modo obbiettivamente più sano e sensato del modo in cui vive la maggioranza delle persone (noi spettatori inclusi). E ciò diviene ancor più evidente quando l’intera famiglia – dopo aver ricevuto la triste notizia della morte della madre – decide di andare al funerale. Per inciso, veniamo a sapere che questa madre, idealista e proveniente da famiglia agiatissima e conservatrice, soffriva di gravi disturbi psichici che avevano richiesto il suo internamento in un ospedale e che infine l’avevano portata al suicidio. Dirigendosi verso la città in cui le esequie avranno luogo, a bordo di un vero e proprio pullman attrezzato come una casa su ruote, con scaffali di libri e cuccette dove dormire, la famigliola si trova ex abrupto faccia a faccia con “gli altri”, i cosiddetti “uomini della moderna società dei consumi”. I ragazzi, sconvolti, si chiedono che malattia abbiano i tanti obesi – che del resto negli USA sono davvero legione - che vedono ovunque nei diners, per le strade, in banca; si confrontano con cugini che trascorrono il loro tempo chini sui loro cellulari o video games e che non hanno alcuna curiosità intellettuale e conoscenze culturali prossime allo zero. Perfino nello scontro che Ben ha con sua sorella su cosa è lecito dire o non dire a dei ragazzi, non si può fare a meno di parteggiare per lui: ha ovviamente ragione. Eppure, lo spettatore comincia ad avvertire un po’ di fastidio, un certo disagio. Sì, è vero: i cosiddetti “normali” vivono nell’ipocrisia di una società cannibalica; e sì, è anche vero che il popolo consumista si nutre di ignoranza e pecoresca assuefazione a pensieri, stereotipi e codici morali e teorie educative assurde. Però è altresì evidente che l’educazione modello portata avanti dall’idealista Ben lascia i suoi figli nella totale ignoranza emotiva e relazionale. Ci vorrà di sfiorare la tragedia perché infine si convinca che a volte occorre fare compromessi, mediare, fare un passo indietro. Educare – che poi sembra essere il tema centrale del film – significa letteralmente “condurre fuori” e Ben lo aveva interpretato troppo alla lettera: invece che come un far emergere da ognuno ciò che è nato per essere, come un “portare in salvo, fuori dalla società”.

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