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Twilight

Regia di György Fehér vedi scheda film

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La recensione su Twilight

di Peppe Comune
9 stelle

In un paese ungherese non precisato, immerso in una natura verdeggiante e avvolto da una fitta nebbia che sembra scendere minacciosa dal cielo, tre bambine vengono ritrovate morte in aperta campagna. I sospetti ricadono in successione su due persone : Hàzalò (Gyula Pauer), l’uomo che ha ritrovato l’ultima vittima  denunciando la cosa alla polizia, e il “misterioso"  signor K. (Jànos Derszi), un uomo alto con cappello a falda che corrisponderebbe molto al "gigante"  disegnato da una delle bambine uccise. Gli abitanti del luogo insorgono e vorrebbero farsi giustizia da soli. Ad indagare sulla spinosa faccenda è un commissario ligio al suo dovere pubblico (Péter Haumann), voglioso certamente di trovare l’infame assassino, ma consapevole anche del fatto che l’arresto del colpevole non farà mai giustizia delle colpe degli uomini.

 

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“Szürkület” - Scena

 

 

 

Da una terra sempre florida di spiriti cinematografici come l’Ungheria, arriva questa gemma di film che si distingue per la sua nitida consapevolezza stilistica. Liberamente tratto da “La promessa” di Fredrich Durrenmatt (che ha anche lavorato alla sceneggiatura del film), “Szürkület” (crepuscolo in italiano) di György Fehér è un noir a dir poco atipico, per come tratta l’oggetto criminogeno e utilizza il mezzo criminale, più incline a farne il movente speculativo da approfondire attraverso lo strumento cinema che la matrice poetica che lavora per favorire l’emergere di un particolare genere cinematografico. Ad indagare sugli efferati omicidi di tre bambine, prima di un solerte commissario di polizia, è la macchina da presa, che si muove con leggiadra lentezza tra i rimasugli sparsi di un’umanità in attesa, calcolando i suoi movimenti come per trovarsi giusto in mezzo ad un enigmatico scenario naturalistico. Sopra, la regia di Fehér cattura un cielo plumbeo che sembra voler cadere tanto è carico di nebbia, sotto, immersa in un territorio rigoglioso di verde ma arido di vitalità, l’indeterminatezza del male fa il suo corso con spavalda precisione. L’obiettivo della macchina da presa si muove come per reclamare con forza una partecipazione fattiva, allargando e restringendo il campo visivo con regolare puntualità, armonizzando i campi lunghi con i primi piani, la coralità scenografica presente nel tutto con i particolari minimi imprigionati nei dettagli. La musica ha un ruolo fondamentale in questa architettura della messinscena, per come si armonizza alla perfezione con la ricercata atmosfera crepuscolare e per come sa donare fascino ai lunghi piani sequenza. La stessa importanza è riscontrabile nei rumori naturali mutuati dall’ambiente circostante, nella nebbia che lo coinvolge in un bianco e nero inespressivo, nei dialoghi parchi e taglienti (non dissimili da quelli rinvenibili in "Le armonie di Werckmeister" di Bela Tarr, scritti appunto in collaborazione con György Fehér), utilizzati essenzialmente per delimitare i contorni speculativi di ciò che non è possibile spiegare. Tutto questo contribuisce in maniera decisiva a generare una sensazione palpabile di sospensione ipnotica, come una sorta di mondo etereo abitato da figure umane somiglianti a delle ombre. Lo spazio e il tempo sembrano non esistere in questo quadro di ineffabile cupezza. Rimangono come sospesi tra le pieghe di una verità da rivelare e il tributo a dei dubbi certificati. I sospetti rimangono un fatto del tutto umano, iscritti nell’iter procedurale delle indagini di polizia, nel carattere formale del potere costituito, nelle aspettative di giustizia delle persone, che in presenza di una colpa pretendono il volto del loro colpevole. Fuori dalla portata delle umane competenze rimane l’idea del male in quanto tale, con la sua natura arbitraria e la sua beffarda impunità. La polizia può indagare su chi lo esercita o arrestare i suoi materiali esecutori, perseguire legalmente chi lo invoca perché ne è affascinato o lo pratica perché ne è vittima, ma non può fare nulla contro la sua attitudine ad abitare il mondo, ad esistere in quanto elemento equilibratore delle sorti dell’intero universo. Il commissario porta esattamente la maschera di questa accertata consapevolezza, la sua durezza tronfia porta i segni della stanchezza, il suo piglio da comandante in capo conosce tutti i limiti a cui è soggetto il suo potere. Si cerca di salvare il salvabile, di dare un ordine al caos, di resistere all’incedere del disincanto. Il fine unico è quello di estrapolare una parte dall’intero, l’unico modo per dare una direzione ad un’umanità che naviga sempre di più a vista, per conferire una forma conoscibile alle ombre, per fornire qualche solida coordinata etica su cui poggiare qualche speranza.   

Come già accennato in precedenza, a permeare la messinscena è uno stato ipnotico latente che avvolge e coinvolge l’intero sviluppo narrativo del film. Una caratteristica che si ritrova spesso nella cinematografia ungherese, passata, presente, e futura (Miklós Jancsó, Bela Tarr, Gyorgy Pálfi, Benedek Fliegauf), conferendogli un fascino del tutto particolare oltre che a fornire dei contributi originali alla grammatica cinematografica. Un grande film in linea con una cinematografia importante.                    

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