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The Wolfpack

Regia di Crystal Moselle vedi scheda film

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La recensione su The Wolfpack

di ohdaesoo
7 stelle

Essere segregati a vita in una casa come i protagonisti di Wolfpack e farsi esplodere vicino ad uno stadio (od uccidere 100 persone dentro un teatro) solo apparentemente sono cose così diverse.
In realtà, e di questo ho una sicurezza quasi sfacciatamente oggettiva, tutti i mali del mondo e dell'uomo, dai più piccoli ai più grandi, hanno una matrice comune.
E quella matrice comune sono i padri e le madri, con la lettera maiuscola o no, umani o divini.
Insegnamenti sbagliati, traumi, privazioni, infanzie negate, tutta la distruzione e l'autodistruzione presente nel mondo deriva da qui.
Quel padre può essere quello che ti ha generato o quello lassù in cui credi ma stai sicuro che se la vita ti farà cattivo quasi sempre il motivo sta in questa educazione, o nella mancanza di essa.
Ogni depresso, ogni assassino, ogni malvagio del mondo è stato un figlio, o un Figlio, che non ha ricevuto l'amore o gli insegnamenti giusti.

Certo questi 6 fratelli di vita vera ne hanno vissuta veramente poca, segregati là in quell'appartamento.
Sei mucchi d'ossa dai visi e capelli indios che per colpa di un padre iperprotettivo e autoproclamatasi onnipotente hanno passato tutta la loro infanzia e parte dell'adolescenza senza mai uscire di casa, o al massimo 5,6 volte l'anno.



E cos'era, allora, per loro il mondo?
Il cinema, soltanto il cinema.
I film erano l'unico modo per evadere da quelle quattro mura e ripetere le scene degli stessi, battuta per battuta, con tanto di oggetti di scena e costumi,  l'unica maniera per fingere di essere altrove.
Cinema salvifico quindi, certo.
Ma in maniera aberrante.
Impossibile non pensare a Dogtooth, e non solo per l'educazione "totale" impartita dal padre, non solo per quell'impossibilità di uscire da quell'unico mondo ma anche, e qui la coincidenza è davvero forte, per il cinema visto come unica finestra sull'altrove.
In realtà i ragazzi di Wolfpack sanno benissimo che mondo c'è là fuori, magari non possono viverlo, ma sanno che esiste e come è fatto.
E anche loro quindi, senza nemmeno doversi rompere il canino, ad un certo punto sentiranno la necessità di uscire.
E lo faranno.



Secondo me, a ben pensarci, il film che più ricorda questa incredibile vicenda (è un documentario se non si era capito, tutto vero) è il The Village di MrNight. Sostituisci ad un'intera comunità un gruppo di 6 fratelli, sostituisci al bosco e ai mostri gli insegnamenti del padre su come il mondo sia soltanto cattivo e pericoloso ed il gioco è fatto.
Uno sente parlare questo branco di lupi (wolfpack) cresciuti in cattività e crede di trovarli cattivi, grezzi, dalle vedute ridottissime.
E invece si ritrova dei ragazzi molto intelligenti, sensibili, assolutamente consapevoli di quello che non hanno e molto meno succubi del padre di come crederesti. E se per l'intelligenza e la consapevolezza il merito è da dare ad un'istruzione comunque ricevuta in casa, dalla madre e, forse, anche dal cinema, il sentirli così liberi dipende dal fatto che questo documentario racconta il dopo, il post segregazione.. E' vero, siamo sempre in un durante, i 6 vivono sempre là, ma ormai la vita l'hanno assaggiata, le fughe ci sono state, il cordone ombelicale è stato finalmente tagliato.
E anche la madre, lei sì veramente succuba del marito, può finalmente raccontare il proprio dolore.
La prima, di fuga, l'aveva fatta il più grande, un ragazzo con degli occhi in cui non riesci a veder separato l'odio e l'amore per la propria famiglia.
E la fuga fu fatta vestito da Michael Myers di Halloween. Perchè se il cinema rappresentava il fuori, solo mascherato da cinema quel fuori poteva essere affrontato.
Certo, lo arresteranno e lo porteranno ai servizi sociali ma insomma, ne valeva la pena.
E in questa fuga, in questo coraggio, in questo camuffamento per uscire finalmente fuori, impossibile non rimandare il pensiero a Kim, al suo casco e a quella prima uscita in Castaway in the moon.



C'è da dire che questo documentario ha il difetto di esser troppo lungo e di darci la sensazione che il meglio lo riserbi quasi tutto all'inizio. Interviste e vita di oggi frammiste a filmati amatoriali, anche abbastanza inquietanti, del passato. Cose che avevamo già visto in due film molto molto delicati e forti, il bel Una Storia Americana e il per me fondamentale Tarnation.
E anche qua, come nel film di Jonathan Caouette, il cinema, l'arte, sarà un modo per sopravvivere, sublimare un dolore e provare a farcela nel mondo.
Un mondo che, dicono loro una volta scoperto del tutto, è come un grande film in 3d.
Perchè la vita vera è la fuori.
Che mica è vivere il non poter sentire con i propri piedi l'ultimo lembo di un'onda e capire che sì, quella paura che credevi di avere del mare in realtà ce l'hai davvero.
Che mica è vivere il non poter schiacciare il naso su una vetrina e vedere quella torta al cioccolato che se ne sta lì, spocchiosa e superba, tutta orgogliosa di farsi ammirare.
Che non è vivere conoscere un mondo di soli pavimenti e porte, un mondo dove non puoi nemmeno bestemmiare contro la buca o la radice in cui sei inciampato
Che non è vita quella in cui non puoi provare l'adrenalina di sfuggire alla pioggia.
O l'incoscienza di starsene lì, come me, a faccia in su, a prendersela tutta.

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