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Tutti gli uomini del Presidente

Regia di Alan J. Pakula vedi scheda film

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La recensione su Tutti gli uomini del Presidente

di lorenzodg
8 stelle

“Tutti gli uomini del presidente” (1976, All The President’s Men) è un film di Alan J. Pakula tratto dal libro-inchiesta omonimo di Bob Woodward e Carl Bernestein sull’inchiesta Watergate che portò all’impeachement nei confronti di Richard Nixon (il 9 maggio 1974) e quindi alle sue dimissioni (9 agosto dello stesso anno). Il film fu sceneggiato da William Goldman (che masticava cinema di gran classe e vinse l’Oscar per la sceneggiatura non originale l’anno dopo) e la scrittura risulta compatta e viva, scattante e sagace: poco vicina a frivolezze e escandescenze compiacenti. Il tono della pellicola è molto sobrio ma nello stesso tempo diretto e senza peli sulla lingua. Certo i dati e i tempi erano già stati scritti e letti ma si deve considerare che passò poco tempo dalla sceneggiatura all’uscita del film nelle sale americane. La scrittura viene esaltata dal duo Hoffman-Redford i cui visi, movimenti, corse, sguardi, occhiate. Telefonate, suoni e taccuini raffigurano meglio del possibile un’inchiesta giornalistica in pieno stile anni settanta: il film rende intramontabile (ancora oggi) l’ambientazione e la caratura di simili procedure; tutto rimane indelebile e inattaccabile dal punto di vista dell’impostazione del montaggio. Certo è che i due giornalisti del Washington Post si mangiano tutto il resto (o quasi) e risulta sgradevole nell’intorno alla redazione vedere facciate, schemi, porte e una città distante. Risulta talmente vivo il didentro che il fuori appare (e lo è nel film –forse volutamente-) mesto, fermo, spento e poco adorno alle carrellate fulminanti (e geniali) di Pakula all’interno del giornale. Le corse dentro e le corse fuori, i duetti dietro la scrivania,  le interviste a coppia e l’alternarsi della scena per approfondire il tutto (ora con Gola Profonda e ora con chi ha paura di parlare): l’inizio, le voci, le riunioni, le domande, il direttore, la lista-nomi, il denaro-sporco, la rielezione, i cinque e il gran Jurì..sono tutti uno dentro l’altro come scatoli cinesi fino ai dubbi finali e alle certezze impossibili (si arriva in alto molto in alto…che le fuga di notizie non pareva –assolutamente- vera). Ciò che colpisce è lo sviluppo narrativo incalzante, il susseguirsi di nomi semisconosciuti, la determinazione e il colpire al cuore il potere: questo film ‘libero’ rappresenta un (l’) esempio giornalistico degli ultimi decenni, una chiara e lucida analisi su che cosa dovrebbe (deve) fare un’inchiesta e affrontare schemi precostituiti e rompere ogni muro (di bugie) per chiudere il circolo fino in fondo. Il film riesce a scandagliare tutto il giornalismo americano dell’epoca con una ricostruzione di immagini, di luoghi e di vicende dentro a un giornale. Le telefonate continue oggi appaiono fuori contesto ma la diretta chiamata (iniziale) alla Casa Bianca (con un numero diretto…rimasto e che fa scuola: il potere è lì più vicino di quanto non si creda).
Trama: il film tende ad asciugare un’inchiesta lunga fatta di molti nomi, complicazioni, cavilli e nuvole che affiorano in ogni circostanza. Il giornalista Bob Woodward comincia a indagare sull’episodio di alcuni scassinatori, colti in flagrante, nel complesso residenziale chiamato Watergate. Tutto sembra un banale arresto ma da lì che parte l’indagine su quello che è lo scontro politico tra democratici e repubblicani e la rielezione del nuovo presidente degli Stati Uniti (la didascalia parla del 17 giugno 1972). Le cinque persone si erano intrufolate nella sede del Partito Democratico: per atti di ‘spionaggio’ atti a destabilizzare la campagna elettorale per la nuova presidenza (microspie, foto e corruzione che arriverà dopo). Bob Woodward (Robert Redford) e Carl Bernstein (Dustin Hoffman) del Washington Post iniziano una lunga corsa fatta di indiscrezioni, sussurri, segreti e sottigliezze. Ma i silenzi di alcuni insospettiscono molto e la ‘voce’ di Gola Profonda (Hal Holbrook) che si rivelerà essere Mark Felt, ex agente FBI, morto a 95 anni nel dicembre 2008 (scrisse un libro intervista in merito a tutto quello che fu il ‘Watergate’). Il direttore del Washington Post Benijamin C. Bradlee (Jason Robards) non si fidava molto dei ‘due ragazzi’ per le prove che mancavano: l’inchiesta si infittiva di nomi, di grandi quantità di denaro fino ad arrivare al vicepresidente –quindi Nixon-. I silenzi erano ancora troppi ma il ‘non dire’ di qualcuno scatenò l’invasione dei documenti sul giornale. Un ultima telefonata, un conteggio ed ecco che il pericolo microspie arriva direttamente a casa dei giornalisti e del direttore. Nello stesso novembre 1972 Nixon fu rieletto ma oramai l’inchiesta era dirompente e si arrivò direttamente alla Casa Bianca (nella parte finale del film compaiono didascalie di nomi e date con dimissioni fino a quello eclatante di Nixon nell’agosto 1974).
Cast. Il duo Hoffman-Redford funziona benissimo. Si rubano la scena a vicenda anche se, in alcuni frangenti, Hoffman sembra più a proprio agio e si dimena proprio bene tra carte, notes e appunti (sarà perché è piu ‘vecchio’ come giornalista del ‘pivello’ Redford che è da pochi mesi nella redazione…). In ogni caso il film non sbanda mai e l’inchiesta avvince e tiene incollati fino all’ultimi…metro di pellicola –col finale scontato che già sappiamo-). Ma l’applauso ‘incondizionato’ va a Jason Robards che eccelle con una classe incredibile (il personaggio è suo! E anche l’articolo…che fa sognare ai suoi giornalisti…). Di grande interesse tutti gli altri: tutti rimangano impressi e ognuno fa benissimo la sua parte.
Regia. Alan J. Pakula da al film un taglio ben preciso: l’intento è quello di colpire la ‘politica’ e il ‘potere’ in senso lato al di là della ‘grande inchiesta’ raccontata. Un piglio autorevole e sagace. Tutto poco propenso a non fare sconti a nessuno. Certo l’intervento di molti nomi e fatti, il percorso lungo dell’inchiesta fa stringere il film nella seconda parte con una serie di interviste (fatte anche bene) ma forse un po’ rituali e appassionanti (forse) solo in un dibattito processuale.
Scena da ricordare: dopo aver parlato con Gola Profonda, Bob Woodward (Redford) esce dal parcheggio e risale in strada; siamo in piena notte ha paura, cammina e comincia a correre, di colpo si ferma (e con lui la macchina da presa) e si gira: pensa di essere seguito ma non vede nessuno. Un’ottima scena (una finzione dietro alla maschera di bugie) che rifà il verso a “I tre giorni del Condor” di Pollack dell’anno prima al film di Pakula. Un paio di minuti in cui il notturno, la musica e i passi sono tutt’uno.
Voto 8/9.
 
 
 
 
 
 
        

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