Regia di Ciaran Foy vedi scheda film
C’è una sequenza di incubo, in questo malridotto sequel, alla quale aggrapparsi con le unghie e con i denti: il piccolo Dylan si trova in un contesto che, alle sue spalle, cambia forma (dall’interno di una stanza all’esterno dei campi), mentre il primo piano sul suo urlo ripetuto in montaggio è virato su tonalità cromatiche acide. Lo slittamento nei differenti piani onirici e le sue modalità di impaginazione ricordano Operazione paura di Mario Bava e ci invitano a non sottovalutare il secondo atto della saga iniziata da Scott Derrickson, qui accreditato come cosceneggiatore. Ma è proprio la mancata sottovalutazione ad alimentare aspettative puntualmente deluse sotto ogni aspetto: drammaturgico, perché i procedimenti narrativi sono identici a quelli del primo capitolo (filmini in Super 8, spettri di bambini omicidi posseduti da Bughuul, contesti familiari in pericolo a causa della fragilità del più piccolo) e i dialoghi risultano irricevibili; emotivo, perché lo spavento è sempre proposto in terzo tempo (alternanza doppia di tensione e rilassamento, prima dell’irruzione visivo/sonora telefonata) e l’inquietudine è risaputa da quanto acquisito in Sinister; grammaticale, perché alcune accelerazioni in camera a spalla sono fuori registro non meno dello slabbrato triangolo madre/padre violento/amante pacioso buono solo per allungare il minutaggio. La sindrome da saga colpisce ancora. Peccato, perché in quella sequenza baviana c’è vera qualità.
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