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Room

Regia di Lenny Abrahamson vedi scheda film

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Utente rimosso (Vesper Lynd)

Utente rimosso (Vesper Lynd)

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La recensione su Room

di Utente rimosso (Vesper Lynd)
7 stelle

La storia di Room (volutamente senza l’articolo) inizia in medias res e si dipana in un crescendo di tensione ed angoscia talmente disturbante da tenere lo spettatore senza fiato, vigile e scomodo, come a seguito di un pugno mollato all’altezza dello stomaco. Tuttavia, ad una prima parte respingente – ma interessante- ne segue una seconda di decompressione, più conciliante e forse buonista, dove l’epilogo risulta abbastanza prevedibile: un demerito per la regia? Probabilmente, nonostante la brillante interpretazione di Brie Larson oscura a mio avviso a tratti le perplessità per questo cambiamento di registro repentino. E forse oscura anche le figure “di contorno”, la madre di lei, personaggio appena abbozzato, o il padre di Joy ed ex marito della madre, che viene liquidato in fretta dalla trama dopo avere categoricamente rifiutato di accettare il piccolo Jack, frutto della violenza e dell’orrore patito per anni. Probabilmente in quest’ultimo caso una scelta registica consapevole, cioè quella di relegare queste figure al ruolo di comprimari per fare luce sui due veri protagonisti, complementari e simbiotici, Joy e Jack. Due facce della stessa medaglia, come ogni madre con il proprio figlio, ma ognuna con le proprie prerogative ed il proprio modo di affrontare il dolore: Joy l’adulta si è fatta carico di un peso enorme, ha sofferto per entrambi, e dopo la liberazione è schiacciata dal senso di colpa per avere voluto egoisticamente tenere Jack con sé, pensando (o forse non riflettendo nemmeno) che fosse la scelta più sensata da fare; e Jack, che da bambino innocente e curioso esplora persino il dolore con curiosità, cogliendone l’aspetto della novità, l’euforia ed il senso di vertigine alla scoperta dell’immensità del cielo, di un azzurro abbacinante, che ammutolisce, ma che non spaventa. E quando Joy è troppo schiacciata dal peso dell’io e delle sue sovrastrutture, dal senso materno di protezione, dall’attenzione morbosa dei media e dall’esigenza di volersi giustificare, è proprio Jack a ricordarle che anche lei (e proprio lei!) ha una grande forza, la stessa che con enorme devozione e amore l’ha portata per cinque anni a costruire per Jack un universo rassicurante, racchiuso in pochi sudici metri quadrati e sovrastato da una pezza azzurrina che conduce a mondi che non ci è dato conoscere. Un po’ ricorda “La vita è bella” il disperato tentativo di mistificare la realtà a fin di bene, di insegnare ai figli ad amare il sudicio, il brutto, a familiarizzare con la sofferenza, con gli stenti, a dare un nomignolo agli oggetti, per quanto terrificante sia la loro fattezza e misera la provenienza. E accanto ad una madre eroica, ma profondamente umana anche nelle sue debolezze, un bambino- che come ogni bambino- diventa modello di coraggio e di resilienza, e ci ricorda (che noi adulti ne abbiamo tanto bisogno) che il mondo è fatto di porte, che si aprono su altre porte, che si aprono su altre porte, che mai siamo in trappola, neppure dentro il più angusto dei nascondigli, che se siamo ostaggi lo siamo principalmente di noi stessi.

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