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Room

Regia di Lenny Abrahamson vedi scheda film

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M Valdemar

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La recensione su Room

di M Valdemar
6 stelle

 

locandina

Room (2015): locandina



Film-stanza racchiuso tra i muri di un'esistenza interrotta, alienata: esplorazione e identificazione avvengono lungo lati-coordinate che descrivono e inscenano il dramma, il perturbante, i sensi. Un insieme strumentale: dall'immaginario popolare - di riferimenti cronachistici, letteratura in tema (anche presente tra la metaforica oggettistica: da Alice in Wonderland a Il conte di Montecristo), finzionalità audiovisiva (potrebbe trattarsi, e forse lo è già stata, una puntata di Law & Order: SVU; mentre alcuni particolari rimandano a Kynodontas) - all'utilizzo di meccanismi tipici (la mistificazione della realtà, necessaria alla sopravvivenza; l'ammiccante voce fuori campo del bambino-indigeno), la rigorosa rappresentazione del microcosmo-mondo sconvolge come da copione.
Fin dall'incipit - avvolgente, angosciante, inequivocabile -, che catapulta lo spettatore in una dimensione da cui non uscirà più: la stanza come stato della mente - contaminata, sospesa, intrappolata, sfregiata - travalica il luogo fisico per palesarsi dolorosa, tangibile costante anche dall'altro lato del muro.
Nel rapporto madre-figlio (bravissima ed efficace Brie Larson; convincente Jacob Tremblay), ed in seguito tra quello dei due da una parte e la nuova realtà dall'altra, la messa in opera e in luce delle oscurità e ambiguità dell'animo: emblematico il drammatico confronto tra ma' e Jack quando la prima cerca di spiegare al secondo la "verità vera" delle cose, e la dichiarazione di rifiuto di Jack a vederla («io non ci riesco a vedere il lato di fuori!»).
Se il film di Lenny Abrahamson (e)segue dunque un'archetipica partitura di tracciati psicologici e frammenti sociologici, sapendo creare un legame armonico tra opera e pubblico (inevitabili cessioni alla facile commozione e a stucchevolezze, ma non v'è segno di ricatto), e pur non essendo esente né da passaggi obbligati (l'evasione e il reinserimento nella quotidianità, le musichette struggenti al piano) né da questioni irrisolte (la figura del padre-nonno interpretata da William H. Macy), laddove Room incide di meno e incespica, è nella gestione temporale, nella tenuta (tanto narrativa quanto di linguaggio).
Prima parte ottima, a cui non a caso corrisponde una gestione spaziale assai incisiva: la mdp, fluida e presente quasi come fosse personaggio in scena, mentre scandaglia, dettaglia, i confini (noncé gli "arredi") del capanno-carcere-universo, cattura e connette racconto e contenuto.
Prospettive e punti di vista (come quello del bambino dall'armadio-giaciglio ogniqualvolta l'orco entra nella stanza) che bene rendono la materia tragica delle cose e dei caratteri.
Sebbene non priva di spunti d'interesse, attinenti perlopiù alla descrizione introspettiva, la (debole) seconda parte - dalla liberazione in poi - si dipana invece in maniera più canonica, banale, quasi "televisiva", dando spesso l'impressione di trascinarsi (troppo a lungo) in attesa del (bel) finale che apre nuove finestre sulle immensità del mondo.


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