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I tre volti della paura

Regia di Mario Bava vedi scheda film

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La recensione su I tre volti della paura

di Antisistema
8 stelle

Film pratico e teorico del cinema di Mario Bava, che declina la paura in tre modi differenti; il thriller-giallo, il puro horror gotico soprannaturale ed infine un horror parapsicologico, tre modi di trasmettere la paura, che sono i tre modi in cui Bava ha sviluppato sino a questo momento nella sua filmografia la sua concezione della trasmissione della paura allo spettatore. I Tre Volti della Paura (1963) si colloca nei 6 anni iniziali dell'intensa produzione di Mario Bava, autore di oltre una decina di film in quell'arco ristretto di tempo, che però in Italia non ottenne un gran successo di pubblico, mentre un pò meglio andò negli Stati Uniti. 
Partendo da un prologo di Boris Karloff, icona del genere che era in decadenza da un pò di anni e grazie a Bava trova modo di lavorare in una pellicola di serie B, che poi nello spirito è tutto tranne che quello, l'anziano attore richiamandosi a pellicole come Frankenstein di James Whale (1931), crea la giusta atmosfera cercando di mettere in guardia lo spettatore dal terrore che potrebbe provare al cinema vedendo questi tre episodi, basati su racconti di scrittori abbastanza noti. 
Il primo episodio si chiama il Telefono, basato su uno scritto di F.G. Snyder, molto Hitchockiano nell'impostazione essendo ambientato in un unico spazio e ricorda per certe dinamiche il Delitto Perfetto (1954), tramite il quale Bava ha assimilato la lezione del regista inglese in merito ai movimenti di macchina per creare la tensione, i plot twist per sorprendere lo spettatore (anche se oggi piuttosto prevedibili) e lo strangolamento come metodo di uccisione. Liquidato come un mero esercizio di stile e forse lo è, però si segue con molto piacere e genera molta tensione; sicuramente a livello estetico, di messa in scena e narrativo risulta l'episodio meno originale e più derivativo, perchè di Mario Bava forse c'è solo il senso del morboso, tramite il rapporto lesbico implicito tra Mary (Lydia Alfonsi) e Rosy (Michele Mercier), quest'ultima spaventata dalle continue telefonate minatorie di Frank (Milo Quesada), suo ex-fidanzato adesso evaso dalla prigione. Inutile dire come l'interessante rapporto lesbo che fa di Rosy il vertice di questa "ossessione" amorosa, sia stato del tutto eliminato nella versione americana, che brutalizza e devasta il legame tra le due donne, trasformando il tutto in una banale storia di fantasmi. 

 

scena

I tre volti della paura (1963): scena


Nel secondo episodio I Wurdulak, tratto da un racconto di Tolstoj, siamo innanzi ad un puro horror di stampo gotico di matrice soprannaturale, tramite la figura del Wurdulak, una creatura che uccide coloro che ama, tramutando questi ultimi a loro volta in una sorta di cadaveri ambulanti che si danno al vampirismo. Pregno delle atmosfere dell'est europa lontano e remoto, l'episodio risente di una lunghezza eccessiva e di una scontatezza narrativa di fondo, dove già dopo pochi minuti si intuisce come finirà il tutto, anche se risulta indispensabile per comprendere teorizzazione del concetto di paura da parte di Bava nel finale del film. Cominciano i primi esperimenti sull'uso del colore (verde e viola), così come l'ottimo uso della fotografia e da incorniciare la carismatica interpretazione di Boris Karloff che anche da anziano si mangia tutto il resto del cast, alle prese con questa storia di amore e morte. 
Nel terzo ed ultimo episodio La Goccia d'Acqua tratto da un racconto di Cechov, l'orrore sfocia nel paranormale. Helen Chester (Jacqueline Pierreux) è una donna addetta alla vestizione dei cadaveri, durante l'ennesimo suo lavoro di routine, vede un anello infilato al dito del cadavere della defunta medium miss Perkins, l'occasione fa l'uomo ladro e così ruba l'anello, dando il via al suo ritorno a casa ad una serie di fenomeni paranormali che la perseguitano. E' l'episodio più spaventoso ed inquietante dei trittico, risultando in fin dei conti anche il migliore vista la breve durata che gli impedisce di perdersi in lungaggini e mirando subito al sodo. Di solito i film dell'orrore che hanno svariati decenni sul groppone è quasi impossibile che mantengano la loro carica spaventosa, dato che i canoni della paura si sono evoluti dopo tutto questo tempo, eppure Mario Bava tramite fonti i colore impossibili, l'atmosfera, i rumori amplificati delle gocce d'acqua e l'ausilio di un manichino con un'espressione che terrorizza di brutto, dà la paga a tanti horror con i milioni incapaci di generare una benchè minima paura se non tramite il banale uso di jump scare. Il furto dell'anello sarà la causa scatenante della vendetta della medium, in una reazione a catena di stampo pessimista sulla natura umana che protrarrà all'infinito il cerchio della paura, perchè rubare ai morti è un atto sacrilego, che porta a su di sè il senso di colpa. Il tocco del genio di Mario Bava che eleva questo film tra le vette, è l'epilogo affidato sempre al grande Boris Karloff, che dopo aver snocciolato l'ennesimo pippotto sulla paura rivolto al pubblico, allargandosi il campo, finisce con il svelare in modo ironico uno dei trucchi creati dal maestro Bava per trasmettere l'orrore e creare la sensazione di velocità del cavallo all'interno di un bosco, prendendo in giro così il meccanismo della paura tramite il rendere palese la finzione in una chiave meta-cinematografica che esorcizza l'orrore nello spettatore rendendo palese il genio e la natura effettistico-visiva del suo cinema a scapito di quella narrativa. La settima arte per Mario Bava è il potere assoluto della creazione dell'immagine. 

 

scena

I tre volti della paura (1963): scena

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