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Totò e Carolina

Regia di Mario Monicelli vedi scheda film

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La recensione su Totò e Carolina

di lamettrie
9 stelle

Uno splendido film sulla storia dell’Italia 1950-’55, tra la seconda guerra mondiale e il boom economico.  In modi molto delicati e allusivi (del resto non permetteva di più, quella censura democristiana che ha fatto di tutto per deturpare il film alla sua uscita), senza offendere nessuno, Monicelli ci ricorda i vizi capitali dell’Italia di allora, aiutato da grandissimi sceneggiatori come Sonego e Age e Scarpelli: è l’Italia tutta polizia e chiesa. Rispettivamente, queste agenzie erano sostenute da America e Vaticano, come è ovvio dire. Ma è un’Italia non tanto diversa da quella fascista, autoritaria e capace di usare la Chiesa come miglior strumento per la conservazione del potere nelle mani delle classi dirigenti ricche. Storia vecchia, quindi, forse l’unica che abbiamo conosciuto come paese, dal medioevo in avanti. A farne le spese sono coloro che chiedono l’affermazione dei diritti umani. Questi ultimi qui sono i comunisti, che la pellicola implicitamente  incensa come meritano in quanto antifascisti; ma che, sbagliando, non denigra in quanto fautori dei totalitarismi del socialismo reale. Ma la partigianeria politica è qui, appunto, solo accennata, per necessità di censura e per fedeltà al messaggio “liberale” (nel senso del termine di primo ottocento) che si vuole suggerire.

La pellicola ha il merito di mostrare tante contraddizioni italiane:

1) Totò, che rappresenta l’ordine (e come sempre recita divinamente), parla male dei comunisti, che pure lo aiutano, ma parla bene dei cattolici, che pure lo tamponano.

2) Lo stesso Totò fa rispettare in modo tronfio l’ordine pubblico, ma il ladro è poi il suo figlioletto.

3) La famiglia cristiana dei Barozzoni è tanto devota e rispettabile all’apparenza della piazza, quanto orrida per chi la conosce davvero.

4) Il parroco è rappresentato come colui che ha la parola suprema in loco, ma ciò che rappresenta è inadeguato; anche perché lascia bivaccare in sacrestia un soldato americano che, da classico occupante tanghero (verrebbe da dire: da classico occupante tanghero americano) , è interessato solo a mangiare e bere a sbafo, esercitando strafottenza sugli occupati.

5) Infine, l’ultima contraddizione: Totò, per guadagnarsi la carriera, fa statue di mollica del suo superiore; la captatio benevolentiae è una specialità tricolore, purtroppo, se si vuole fare carriera, ma la statua è di mollica: il materiale meno adatto alla retorica. È proprio così che la retorica mostra la sua intrinseca debolezza.

Del resto, tutto il paternalismo di Totò è inquinato anche dall’opportunismo:  lui provvede alla sicurezza della ragazza perché ne va della sua carriera. Un classico all’italiana , un difetto che il film mostra bene: l’azione deve apparire meritoria in sé; ma se non ci fosse stato di mezzo quell’interesse privato molto forte, il tutore della legge sarebbe stato ugualmente zelante verso il suo dovere? Il bene, così sbandierato come unica stella polare dell’agire (e qui c’è molto della retorica cattolica), sarebbe stato erogato con la medesima sollecitudine? Evidentemente no: ma  l’ambiguità non è una pecca del film, perché tratteggia proprio uno dei tanti problemi della coscienza morale, così come mediamente è stata allevata nello stivale. L’ambiguità mostra l’opportunismo del personaggio di Totò, così come ne mostra l’autenticità e la reale bontà: non riesce a essere davvero severo con la ragazza che pure gli crea grattacapi; soprattutto, non approfitta della sua debolezza. Eppure è vero che nel finale Totò sembra chiaramente portarsi in casa proprio questa ragazza: ma tutto quel che si è visto prima fa propendere per l’idea che lui non si approfitti mai della situazione di fragilità di questa giovane. Ma chissà come sarà andata a finire? Anche in questo caso la sceneggiatura lascia aperte tutte le risposte e tutte le strade, quelle più nobili e le altre.

Il film è poi una chicca anche perché è una commedia neorealistica: si ride  e tanto si sorride, ma al fondo i drammi sono trattati, sia quelli collettivi e storici, sia quelli individuali. La ragazza in questione è una disperata: pone tragicamente  in questione i fondamenti stessi del vivere, ma vi risponde facendo attaccamento alla vita stessa, cioè agli affetti vissuti, in poche parole. Infatti non può che amare l’uccellino che ha fra le mani, sia quando era vivo, sia quando è morto per un imperscrutabile volere.

Tutto questo riesce ad apparire all’interno di una leggerezza davvero godibile, commuovente,  nient’affatto commerciale né gratuita, prodotto di un’autorialità tecnicamente molto elevata, sotto ogni profilo. Che allora, dopo la conquistata fine del fascismo e quindi il potere statunitense in Italia, si doveva tollerare (molto parzialmente); adesso sarebbe quasi spenta sul nascere, per interessi politici conservatori plutocratici, come si diceva.

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