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Il caso Spotlight

Regia di Thomas McCarthy vedi scheda film

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La recensione su Il caso Spotlight

di amandagriss
2 stelle

 

Sarà per la troppa luce puntata, che parte dalle recensioni strillanti/trasudanti perentorio entusiasmo direttamente dalla locandina (studiata ad arte per apparire senza fronzoli e scevra da superflue estetizzazioni) per finire ai giurati dell’Academy, rei di averlo decretato miglior film dell’anno, ma Spotlight, e adesso -alla fine dei giochi- possiamo tranquillamente asserirlo, non è altro che un vistoso, clamoroso abbaglio.

Operetta mediocre di stampo televisivo con la quale lo sceneggiatore e regista Tom McCarthy vorrebbe resuscitare quel cinema made in usa (squisitamente anni’70) d’impegno civile improntato sul giornalismo d’inchiesta -basti citare Tutti gli uomini del presidente- che oggi, purtroppo, non esiste più. Uno degli ultimi esempi, se non proprio l’ultimo, è stato il più che discreto State of play (2009) di Kevin Mcdonald con Russell Crowe e (guarda caso) Rachel McAdams.

E allora, per creare una continuità tra il vecchio e il nuovo, affinché non passi inosservata la serietà, nonché l’integrità e l’onestà con cui porta avanti il suo lavoro, McCarthy pensa di intervenire sul racconto in modo deciso e rigoroso, spogliandolo di ogni possibile orpello e virtuosismo, limando ogni eventuale digressione, evitando, cioè, tutte quelle inutili divagazioni o sonore distrazioni 

[la McAdams vestita con pantaloni e larghe camicie per farci dimenticare i lustrini della star e concentrarci sul personaggio di giornalista acqua e sapone, forte e caparbia] 

che possano in qualche modo oscurare l’argomento principe (l’inchiesta sui preti pedofili) e compromettere la piena attenzione sul problema chiesta allo spettatore.

Per rimanere, insomma, come i veri giornalisti sanno fare, costantemente sul pezzo.

Un’accortezza non da poco, che i giurati dell’Academy non hanno trascurato, ma da questo a sostenere che lo script di Spotlight sia quello che si dice essere una sceneggiatura di ferro o ad orologeria, che fila liscia tutta d’un fiato, che t’inchioda alla poltrona, che non fa una grinza e nemmeno sbavature, degna di vincere un oscar, ce ne vuole. Di coraggio.

Dell’inchiesta, così scottante e pericolosa da mettere a rischio la vita di coloro che indagano, nuotando controcorrente in un mare di omertà, scambi di favore, poteri forti anzi fortissimi che tutto insabbiano e annaspando tra la vergogna, il dolore, la rabbia delle vittime rimaste troppo a lungo senza voce, ne sentiamo solamente parlottare; non assistiamo a nulla di quello che i nostri eroi si affannano a sostenere o rischiano di subire (compreso beccarsi una pallottola).

Bla bla bla e fiumi di nomi (che non riusciamo ad associare nell'immediato ad un volto specifico) estratti dal copioso mazzo dei chiamati in causa, sciorinati senza freni per riempire i vuoti di uno script veramente imbarazzante, teso a confondere le idee di chi cerca per davvero di seguire la vicenda e comprenderne per bene ogni fase, ogni passaggio, purtroppo invano, dal momento che molti punti del racconto restano imbrigliati in una fitta, persistente, ottenebrante oscurità.

Questo team d’assalto dal sapore vintage, che nell’era del digitale o comunque delle cassette e dei registratori portatili fornisce (allo spettatore) come unica prova della propria professionalità ed onestà d’intenti l’andarsene in giro a intervistare e prendere appunti muniti d'ingombranti block notes e penne a sfera (il regista ha certamente visto State of play), appare ai nostri occhi titubanti costantemente affiatato e compatto: mai screzi, mai crepe nella nobile, solida armatura.

Un corpo e un’anima sola verrebbe da dire.

Questi “giornalisti giornalisti” sono come fiumi in piena, inossidabili caterpillar arroccati sulle loro (aprioristicamente) giuste convinzioni che sfrecciano alla velocità della luce per raggiungere ed inchiodare al muro lo scopo prefisso.

 

Spotlight non buca lo schermo.

Si srotola pedante, piatto, tedioso. Non coinvolge, non avvince e mai, proprio mai, emoziona, nonostante il fastidioso commento musicale insista nel sottolineare il momento x cruciale della situazione o la svolta y determinante per l’indagine in corso.

Non avvertiamo l’atmosfera pesante né la tensione schiacciante tipiche di un’investigazione top secret, come non scorgiamo sui volti dei cronisti (sempre d’assalto) un barlume di umanità, un’espressione seppur fugace di dubbio, di esitazione, di perplessità, sudori freddi o paura paralizzante, stati emotivi tipici quando per mestiere si scava nel marcio.

Sguardi semmai, e nel caso di Mark Ruffalo smorfie e mossette, troppo concentrati a mandare a memoria il fragile, farraginoso, vacuo e vago copione che inefficaci soluzioni registiche cercano di alleggerire, rendere dinamico e appena guardabile: l’affannarsi a cambiare continuamente scenario per i pessimi, sempre uguali, dialoghi a cui non seguono mai i fatti, le corse a vuoto (di Ruffalo) per farci comprendere che la situazione è altamente infiammabile, il tempo è tiranno e la concorrenza sleale potrebbe subentrare, il diversivo della pizza o la chiacchierata ‘empatica’ in balcone o quella al telefono in auto alla volta della Florida.

Copione, tra l’altro, che perde pezzi per strada, finendo per rendere approssimativa, rappezzata, incompiuta quella che inizialmente il regista-sceneggiatore ci ha tenuto a definire indagine complessa, a tutto tondo, dove è necessario che a prevalere sia il quadro d’insieme e non i suoi singoli elementi su cui, invece, s'impalla.

Cinematograficamente nullo, Spotlight non è nemmeno un film di attori, impegnati (ma quanto veramente ci credevano?) in performance che non lasciano alcun segno.

Vorrebbe essere un fulgido esempio da emulare, ma è solo un maledetto abbagliante imbroglio.

 

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