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Veloce come il vento

Regia di Matteo Rovere vedi scheda film

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La recensione su Veloce come il vento

di Peppe Comune
8 stelle

Giulia De Martino (Matilda De Angelis) è una pilota diciassettenne che sta partecipando al campionato italiano GT. Morto il padre allenatore (Giuseppe Gaiani) durante una gara, Giulia si ritrova da sola, con una carriera da non lasciar sfumare, il fratellino Nico (Giulio Pugnaghi) da dover accudire ed una casa da riscattare dalle fauci di freddi speculatori di disgrazie come Ettore Minotti (Lorenzo Gioielli). Al funerale di Mario De Martino si rifà vivo dopo dieci anni d’assenza Loris De Martino (Stefano Accorsi), ex pilota pure lui, prima che la passione per lo sport si dissipasse tutta nel vortice della droga. Dopo un primo momento di forti dissidi, Giulia capisce che Loris può aiutarla con gli allenamenti e insegnargli come osare di più durante le gare. Ad aiutarli è rimasto Tonino (Paolo Graziosi), il fidato aiuto meccanico di sempre, che ha conservato gelosamente la vecchia auto da corsa con cui  Loris gareggiava, quando era un talento straordinario pronto a spiccare il volo nell’automobilismo dei grandi.

 

Roberta Mattei, Stefano Accorsi

Veloce come il vento (2016): Roberta Mattei, Stefano Accorsi

 

Ispirato alla storia vera del pilota di rally Carlo Capone, “Veloce come il vento” di Matteo Rovere è un film incentrato sul mondo delle corse di cui sa far emergere molto bene, sia la componente più propriamente sportiva, attraverso una stilizzazione “ferrosa” delle immagini dominate dalla preminenza di colori opacizzati virati in grigio, che la caratterizzazione d’ambiente, ottimamente aderente allo spirito spericolato dei piloti, all’odore di olio bruciato e gomme consumate delle piste e alla vocazione adrenalinica delle gare.  Ma la forza del film sta nel non esaurirsi tutto nei momenti della preparazione e dello svolgimento della gara, ma di equilibrare la passione delle auto da corsa dei personaggi con lo sviluppo delle rispettive personalità. A mio avviso, già il titolo, oltre ad esprimere la naturale attitudine a doversi migliorare per poter primeggiare nello sport, evoca la necessità di non fermarsi ad ogni intoppo che la vita produce se si vuole crescere come persona, di cercare di migliorarsi senza vivere di recriminazioni. Infatti, il mondo delle corse fa da sfondo ad una intrigante storia familiare, che prima parte difficile, con un rapporto filiale arrugginito da anni di lontananza e reso rigido da incomprensioni caratteriali che sembrano insuperabili, ma che poi si ammorbidisce strada facendo, prendendo sempre più le forme  di una complicità di interessi che ne rafforza il legame sentimentale. Fino a configurarsi come una sorta di iniziazione più matura e consapevole alla vita per ognuno di loro. Giulia vive un rapporto simbiotico col padre allenatore e alla sua morte lei si ritrova con un talento ancora in erba da dover allenare ed un fratellino da crescere. Si vede costretta a dover compiere uno scatto in avanti, ad iniziare a considerare le corse automobilistiche non più soltanto come uno sport, ma anche come un momento in cui tentare di crescere come donna, cercando una buona sintesi tra la grinta agonistica necessaria nelle piste da corsa e l’equilibrio mentale da adottare nell’affrontare le incombenze quotidiane.  L’arrivo di Loris, questo fratello atipicosconclusionato che ha dissipato il suo talento automobilistico nella tossicodipendenza, è quanto basta a Giulia per metterla di fronte all’esigenza di dover proseguire la sua carriera da pilota senza disperdere nulla delle proprie coordinate caratteriali. Anche Loris vive un pesantissimo deficit affettivo e mettersi a disposizione di Giulia significa per lui ritornare in gareggiata prima che l’ultima curva gli sbarri definitivamente la strada. L’esuberanza caratteriale del primo, che prende spesso la forma di eccessi allucinatori vertiginosi, si sposa con la capacità della seconda di saper cogliere in mezzo al disordine mentale del fratello quanto di buono è rimasto del suo talento cristallino. Alla fine si migliorano entrambi, imparando a volersi bene senza fare pratica dei buoni sentimenti (escluso il finale, che ci può stare) da ostentare a comando, ma rimanendo ancorati ai rispettivi caratteri spigolosi e conflittuali e al proprio mondo, che è fatto di allenamenti duri ed estenuanti, olio che si mescola al sudore della fronte e paura adrenalinica quando si è in gara e si cerca di superare l’ultimo limite consentito. Emblematica in tutto questo è la figura del piccolo Nico, una sorta di osservatore esterno ed estraneo, che vede nella sorella quella figura materna che non ha mai avuto, ed instaura con questo fratello arrivato dal nulla una complicità muta che serve a ridestarlo dalle sue innate insicurezze.

Insomma, “Veloce come il vento” è un film in cui non sono solo le auto ad andare veloci, anche il ritmo tiene botta, equilibrando a dovere i momenti dell’azione automobilistica con quelli dell’approfondimento psicologico di una famiglia “atipica”. La regia di Matteo Rovere è attenta a non scadere in virtuosismi gratuiti o nella retorica buonista, tutto è funzionale per una messinscena che investe, tanto nel digitale per tenere alto il profilo “azionista” del film, quanto in una certa “classicità” narrativa per consentire alla storia di crescere in intensità emotiva. Ne esce un film fresco, vitale, dalla leggerezza prodigiosa mi piace dire (omologo in questo a “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti). Ma soprattutto, “Veloce come il vento” è un bel film italiano, e non solo perché italiani sono tutti quelli che vi hanno lavorato concorrendo a fare il film nelle sue diverse componenti artistiche, ma perché profondamente italiano è il milieu territoriale rappresentato, frutto di quel tessuto Emiliano Romagnolo culturalmente predisposto a fare del rombo dei motori lo sfondo sonoro che si accompagna all’esistenza di tanti giovani che crescono con il mito delle auto (o le moto) da corsa (altra analogia forte con il “romanesco” Jeeg Robot). Sottolineo questo aspetto perché di fronte a film come questo, in maniera anche pregiudizievole talvolta, si tende a dire che “non sembra un film italiano”. Io preferisco capovolgere il punto di vista da cui poter inquadrare la questione, e considerare l’atipicità come aggettivo qualificante da applicare a certi film, non come un fatto riferito alle qualità intrinseche di un intero sistema cinematografico, ma come un termometro di anomalie che misura la quantità di film “freschi” che riescono ad emergere. In Italia, il problema non è mai stato di nascita di talenti nel campo cinematografico, ma di produzione, promozione e distribuzione delle loro opere. Da diversi anni ormai, si preferisce andare sul sicuro investendo sui meccanismi collaudati, o della solita commedia dalle sfumature agrodolci, o del comico che sfuma nel carattere stereotipato mutuato dall’estetica televisiva. Gli esiti al botteghino sono prevedibili e qua e la sono stati fatti anche dei buoni film, ma se non si incentiva la regolarizzazione di un originale ricerca stilistica e di linguaggio all’interno del sistema cinema nostrano, da promuovere e distribuire innanzitutto, il rischio è quello di perpetuare un prodotto che va facendosi sempre più stantio, che si ripete sempre uguale anche quando diverso è il quadro narrativo di riferimento, con scarse capacità di spiazzare, di generare una fidelizzazione rinnovata tra il cinema italiano e le nuove generazioni. Il film di Matteo Rovere ha proprio il merito di disincagliare il cinema italiano dall’utilizzo abusato dei soliti cliché da commedia-comica, come quello (a me particolarmente ostile) di usare come parametro sociale di riferimento il carattere “emblematico” di una borghesia (media, piccola o alta che sia) annoiata ed annoiante. Quindi, sempre viva a film come “Veloce come il vento” e (già che ci sono, e lo spazio è aperto ad altri suggerimenti) “Lo chiamavano Jeeg Robot”.    

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