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Il principe consorte

Regia di Ernst Lubitsch vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il principe consorte

di precint13
8 stelle

Introdotto nel 1927, il sonoro venne utilizzato in esergo per mettere in scena i numeri musicali de Il cantante di Jazz, mentre le parti dialogate ancora erano affidate alle didascalie. Nel 1929, per il suo primo film parlato, Lubitsch dirige un commedia con in­serti musicali (non un musical), tratta dai tre atti di Le prince consort Jules Chancel e Leon Xanrof. Ne è protagonista il celebre cantante e attore francese Maurice Chevalier, interprete di un dongiovanni impenitente, il conte Renard, ambasciatore a Parigi per conto dell'immaginario regno di Sylvania. Rispedito in patria a causa del suo comportamento libertino, contrae matrimonio con la regina Luisa (McDonald, esordiente) ma i doveri matrimoniali non fanno per lui e la coppia pian piano si sgretola...

La continuità con la filmografia muta di Lubitsch è evidente:  la forza prorompente della sensualità femminile (basti pensare a Lo scoiattolo, dove la sessualità propulsiva di Pola Negri era genialmente nascosta e repressa da abiti e comportamenti tipicamente maschile*) fa il paio con l'indagine, deliziosamente eversiva, dei limiti dell'istituzione matrimoniale (Matrimonio in quattro, Il ventaglio di Lady Windermere). Un tema, questo, che sarebbe stato al centro di una delle sue opere sonore migliori (Partita a quattro) e di un grande film minore dell'allievo Billy Wilder, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?.
E se per certi versi è fin scontato affermare che non è tanto nel plot o nei numeri musicali che risiede il maggior elemento d'interesse del film, più stimolante è soffermarsi brevemente sulle qualità della mise en scene di un film girato quasi per intero in interni. Uno spazio, quello dello studio, che Lubitsch trasforma in anfiteatro silenzioso, orizzonte comune e indifferente, coprotagonista inconsapevole, mai svilito dalla logica semplicistica del campo/controcampo (tanto più che il vero contrasto in questo Lubitsch è tra campo e fuori campo). Esemplare, in questo, la breve scena in cui, dopo l'ennesimo litigio, la regina Luisa è schiacciata in campo lungo dai soffitti altissimi del suo privè. L'immagine, dunque, è collante, significante e, contemporaneamente, significato: il visibile completa e contraddice lo script. La marcia d'avvicinamento all'altare assomiglia ad un rito funebre, la prima notte di nozze, con i cannoni che sparano, è ostensibilmente la prima battaglia di una guerra di posizione. La riconciliazione finale assomiglia più ad un trattato di pace, ad un compromesso, ad una sentenza di tribunale. Ed è magistrale l'utilizzo del controluce antinaturalistico ed espressivo, a testimonio di un cinema, quello di Lubitsch, che è pura vertigine invisibile della messa in scena, in cui mal di vivere e joie de vivre si mescolano senza soluzione di continuità, senza (poter) sapere dove finisca l'uno e inizi l'altro.


*sessualità e sensualità che vengono qui incarnate con prorompenza ancor maggior (rispetto alla McDonald) da Lilian Roth nel ruolo della serva Lulù, perennemente in gonna corta a scoprire le gambe. Con una magistrale panoramica da sinistra a destra, Lubitsch mette in scena uno sciame di cortigiani immobili come statue di cera. E' a questi che si contrappone Lulù: motore propulsivo e dinamico che, in coppia con l'amato Jacques (uno straorinario Lupino Lane), canta "Diventiamo volgari e facciamolo ancora".

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