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Melbourne

Regia di Nima Javidi vedi scheda film

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La recensione su Melbourne

di OGM
7 stelle

Partire. Scappare. Te ne stai andando. Ma lo squillo di un campanello insiste nel volerti riportare alla realtà. Qualcosa ti lega fortemente a questo luogo, che credi di poter far fuori riempiendo una valigia e svuotando gli armadi. C’è uno spazio nuovo che ti attende, quello che vanno ad occupare i tuoi vestiti, schiacciati dentro le loro buste di plastica, mentre con una pompa aspiri l’aria ed annulli la loro consistenza morbida, vitale, ingombrante. Ci si può illudere che basti quel gesto di momentaneo azzeramento per mettere un punto e ricominciare daccapo. Lasciare l’Iran e trasferirsi in Australia. Dare via le cose vecchie e consegnare i mobili al rigattiere. Amir e Sarah pensano che la faccenda sia tutta lì. Ma la fine e l’inizio non sono idee separate da un confine netto. Tant’è vero che una bambina appena nata può morire, così, senza una causa apparente, mentre è distesa sul letto a dormire. Anche il nulla e il tutto amano mescolarsi: come essere totalmente innocenti ed avere un enorme peso sulla coscienza. Come dover dire addio e sapere di lasciare un’eredità terribile. Questo film cerca di spiegare come si viva nell’angusto vicolo del paradosso, che si intrufola, subdolamente, nelle fessure create dai momenti di transizione, in cui non si è più qui, ma non si è ancora altrove, e la ragione è debole e indifesa, perché disorientata dalla totale assenza di riferimenti. La distrazione è inevitabile, quando si pensa solo ad affrontare il distacco,  sforzandosi di prendere congedo da consolidate abitudini di vita, dalle consuete frequentazioni, e di concentrarsi sull’immenso ignoto che si spalanca davanti. I due giovani protagonisti di questa storia, una coppia di coniugi in procinto di trasferirsi a Melbourne per motivi di studio, sono caduti in una atroce trappola esistenziale: mentre erano presi dai preparativi per l’imminente viaggio, non si sono accorti che una bambina di pochi mesi, affidata loro dalla babysitter del vicino, ha cessato di respirare. Non sanno come sia accaduto, né quando. Il passato, che credevano di poter liquidare con lo stesso senso pratico con cui si salutano gli amici e si sbaracca un appartamento, è inaspettatamente venuto a trovarli, stabilendosi in casa loro, come una fantasma che arrivi furtivo per non andarsene più. La sua presenza è silenziosa, impalpabile, ma non per questo meno concreta e temibile: un micidiale promemoria indirizzato a quanti si illudano di poter aprire e chiudere a loro piacimento le fasi della loro vita. Non esistono discontinuità a comando, né cesure indolori. Il flusso dell’esistenza è inarrestabile, ininterrotto, e non ammette sospensioni di comodo. Il suo scorrere non si attenua, né si dirada, quando vorremmo fermarci un attimo, giusto il tempo necessario a voltare pagina. Per Amir e Sarah non c’è pace: la realtà non concede loro alcuna tregua. Fino all’ultimo la gente continua a cercarli, a suonare alla porta, al citofono, a chiamarli al telefono, persino via internet. E pure  il destino ci mette del suo, consegnando loro un regalo davvero scottante. La libertà di decidere il proprio futuro deve fare i conti con il presente, che non si lascia accantonare come se nulla fosse. Il principio si applica alle scelte individuali, ma anche alle storie dei popoli, alle rivoluzioni politiche e culturali, a tutte le circostanze in cui si è convinti di poter semplicemente dire basta e correre via. Il passaggio non è sgombro da ostacoli, e deve essere aperto a forza, combattendo contro l’inerzia, contro le leggi di un mondo che si trasforma sempre per gradi e mai in maniera lineare, poiché segue naturalmente un percorso reso tortuoso dagli oggetti seminati lungo il tracciato, e dall’abbattersi degli imprevisti.   Il film di Nima Javidi scava dentro un drammatico istante di quel cammino, dilatandone la durata, per studiare la struttura fine di quel maledetto labirinto in cui la sfortuna si intreccia con il mistero, inducendo il sotterfugio, con l’imbroglio ordito della sorte che chiama l’imbroglio improvvisato dagli uomini, ingarbugliando gli eventi, confondendo i pensieri,  ed annichilendo la capacità consolatoria, terapeutica e risolutiva della parola. Questo è il racconto di un tempo morto che viene inopinatamente rianimato artificialmente dai frammenti di una tensione senza speranza: sporadiche cariche elettriche che producono spasmi e convulsioni dentro un corpo ormai floscio, al quale non è possibile ridonare il soffio vitale, né tantomeno il calore del sangue. Il cuore non batte più per le emozioni, ma solo in virtù di un disordinato riflesso meccanico. Il significato delle azioni si frantuma nel caos di un angolo di mondo ribaltato da un maledetto colpo di vento: un guaio che vuole attenzione, che chiede di essere riparato. Rifiutarsi, e guardare altrove, è un peccato imperdonabile che, in un lampo, macchia le anime esenti da colpe.    

 

Peyman Moaadi, Negar Javaherian

Melbourne (2014): Peyman Moaadi, Negar Javaherian

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