Espandi menu
cerca
La macchinazione

Regia di David Grieco vedi scheda film

Recensioni

L'autore

NausicaNellaValleDelVento

NausicaNellaValleDelVento

Iscritto dal 18 marzo 2016 Vai al suo profilo
  • Seguaci 1
  • Post -
  • Recensioni 3
  • Playlist -
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su La macchinazione

di NausicaNellaValleDelVento
7 stelle

Un film sulla verità. Autentico in ogni sua imperfezione.

La macchinazione di Grieco e delle tante verità sul delitto Pasolini.

 

Più affine al Pasolini del Delitto italiano che Marco Tullio Giordana ricostruisce nel suo film inchiesta del ’95, e piuttosto distante da quell’ultimo Pasolini molto pasoliniano nelle atmosfere che è il film di Abel Ferrara (2014), a cui tuttavia non si può riconoscere l’affanno di porsi troppe domande, La macchinazione di David Grieco, in sala dal 24 marzo, è invece un film, al fondo e fino in superficie, un film anche oltre Pasolini, un film sulla verità.

 

E non perché il regista, intimo amico e collaboratore del poeta friulano, abbia la pretesa di raccontarci la verità sulla morte dell’autore – indecente come ogni pretesa e ogni verità. E nemmeno perché lo slogan “chi ha ucciso Pasolini” alla Chi ha incastrato Roger Rabbit, discutibile trovata commerciale da noir pseudo-accattivante, riesca in qualche modo ad ingannare o illudere lo spettatore sulla possibilità di scoprire davvero, sopra o sotto la verità ufficiale, chi ha ucciso Pier Paolo Pasolini.

 

Piuttosto, ciò che di audace c’è ne La macchinazione – nonché nell’omonimo romanzo edito da Rizzoli nel 2015 e nella commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Pasolini a cui David Grieco sta collaborando per far sì che venga istituita – è l’urgenza, sì necessaria dopo cinquant’anni, di cercarla una verità, di non smettere di far rumore, di grattare l’asfalto e smarrirsi lungo una strada buia che brulica di buche dove sassi sangue e petrolio tengono soffocate le tante bugie di questo mistero tutto italiano. E le tante verità. Ognuna ugualmente falsa, ognuna atrocemente vera.

 

La trama del film è quindi quella intricata degli ultimi tre mesi di vita dell’uomo e dell’artista: un Pasolini “stanco”, che non ne può più “di fare e dire le stesse cose” e che allora scrive Petrolio, atto di accusa contro il potere politico ed economico dell’epoca, scavando attorno alla figura di Eugenio Cefis, presiedente della Montedison e fondatore della loggia P2 che Pasolini non pensava estraneo alla morte di Enrico Mattei. E allora gira Salò o le 120 giornate di Sodoma, “un film difficile” che dapprima immagina con le bandiere rosse che sventolano nel finale per poi rinunciare: “faremo un finale di speranza anche se io odio la parola «speranza»”. Un film, Salò, lo ricordiamo, vincitore, nella sezione classici, dell’ultima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. La 72esima. Una “scelta storica” è stato detto in quel vicino settembre 2015, visto che Salò non aveva mai vinto prima alcun altro premio. E storica, nel senso di impertinente, cioè capace di offrire una visione altra, è la motivazione di Grieco al suo film: “non potevo sopportare l’idea che il Pasolini di Abel Ferrara diventasse la tomba di Pasolini al cinema”, spiega il regista all’anteprima dell’opera avvenuta il 10 marzo a Matera in occasione del meeting internazionale del cinema indipendente. È “intollerabile essere tollerante” fa dire il regista al suo Pasolini che cita Cocteau, perché intollerabile è per Grieco la verità di comodo sulla morte di Pasolini, quella scelta da Ferrara come da tanti, quella di una brava serata di borgata, di un banale incontro sessuale finito male.

 

E così con un Pasolini che non è Willem Dafoe ma indossa quella pelle incredibilmente mimetica all’autore di Massimo Ranieri seppur con la sua immutata voce partenopea (“una scelta pasoliniana” commenta il regista), con un cast altrettanto efficace che vanta, tra gli altri, l’attore Libero di Rienzo e, soprattutto, con la suite dei Pink Floyd Atom Heart Mother, concessa anche a poco prezzo “proprio per Pasolini”, Grieco ci prova e riesce nel suo tentativo di raccontare non una verità ma la macchinazione delle tante, riuscendo a portare sullo schermo una tesi forte, perché ben costruita e verosimile. E perché, in fondo, il regista sceglie di non scegliere nessuna tesi – tra le tante ma mai troppe che in questi 50 anni sono state svelate e insabbiate – decidendo piuttosto di mostrarle tutte, nello sforzo credibile di tenerle insieme, annodando orditi complotti con i tradimenti fortuiti. Non per questo meno colpevoli.

 

La macchinazione è infatti quella che avviene tra i ragazzi di vita – il Pino Pelosi (Alessandro Sardelli) con cui Pasolini aveva all’epoca una relazione e che vantava legami con la malavita organizzata – e i fascisti, ma anche i magistrati, poi i poliziotti corrotti, la Banda della Magliana e tutto quell’apparato di potere politico-massonico-criminale che rende innocenti e colpevoli responsabili allo stesso modo, ugualmente complici, comunque coinvolti. La macchinazione è quindi, nel film di Grieco, quella che ha portato alla morte di Pasolini in quell’idroscalo di Ostia nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975, ma è anche quella che le trivellatrici a mo’ di carro armato (quasi a ricordarci del referendum del 17 aprile) innescano soltanto negli ultimi minuti di film, cioè la macchinazione che è venuta dopo. Dopo Petrolio rimasto incompiuto, dopo i negativi rubati di Salò, dopo Pasolini e la sua morte, dopo il suo corpo calpestato e la sua memoria dimenticata. Dopo l’Italia che è arrivata dopo e l’Italia che sopravvive anche oggi.

 

Perché La macchinazione è un film su Pasolini ma è anche, se possiamo volerlo, un film sulla giustizia e sulla sua assenza, allora un film su Pasolini come su Giulio Regeni, sui perché, sulle morti e sul silenzio. Anche, sulla pietà: “una cosa importante” che “i giovani hanno dimenticato”, ricorda Ranieri nel film. Tutti siamo, a questo mondo, innocenti a tempo determinato. Ad ogni modo colpevoli. E Pasolini lo sapeva. Come quando spiega alla mamma (Milena Vukotic) che anche Pino, “innocente ancora per poco”, lo tradirà e non perché non lo ama ma perché “solo chi ti ama ti tradisce”.

 

E allora mentre in una citazione del maestro Rosi di Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), Matteo Taranto nel ruolo di Sergio prende in prestito la sagoma cartonata di Gian Maria Volontè per ricordarci che spetta “a noi il dovere di reprimere”, che “la repressione è il nostro vaccino”, che “repressione è civiltà”, Grieco scommette con forza sulla verità: “il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia”, sono le parole di Pasolini con cui, facendo sbattere gli occhi allo schermo e infognando il cuore, inizia il film. Facendo subito male, ma di un male che fa bene. Come finisce lo sappiamo. Cosa c’è in mezzo, che non per forza è la verità ma ha quel coraggio, è solo uno dei tanti buoni motivi per andare al cinema a vedere il film. “Un film per molti ma non per tutti” ha sottolineato la produttrice Marina Marzotto (founder e senior partner di Propaganda Italia qui in co-produzione francese con To be continued productions), talmente entusiasta di questo suo miracolo produttivo, ora affidato alla distribuzione in 120 copie di Microcinema, da non risparmiarci neanche un suo cameo durante le riprese. Se solo amassimo essere un po’ più tutti e meno molti, se solo usassimo il cinema come usiamo le biblioteche, usando la libertà di opinione che è una per consumare le verità sui fatti che sono sempre molte, se solo smettessimo di chiederci “chi ha ucciso Pasolini” e cominciassimo a domandarci perché.

Senza fare finta sempre di saperlo, senza smettere mai di fare domande.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati