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Il temerario

Regia di Nicholas Ray vedi scheda film

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vincenzo carboni

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il temerario

di vincenzo carboni
10 stelle

Scrivo queste righe sull’onda di un ricordo, di una immagine che mi ha accompagnato da quando ho visto questo film (“Il temerario”). Credo di aver avuto nove o dieci anni. Da allora una parte piccola di me è rimasta in allerta, come se questo film l’avesse fissata e poi fotografata, in attesa di tornarci sopra molte volte nei pensieri, oppure quando un’altra immagine ha provato a fissare di nuovo quell’oggetto misterioso di me ma vivo, a richiamarlo in superficie misurando però ogni volta uno scarto troppo grande, quello scarto che non c’è tra l’immagine di questo film e quella parte di me. Questo film in tal senso è esso stesso oggetto perduto, perduto perché non passa più in TV, perché non è in commercio, perché pochi ricordano di averlo visto. È oggetto perduto e allo stesso tempo rappresenta oggetti perduti. Ricordo vagamente alcune scene come in un sogno… Ricordo il bianco e nero di Ray stavolta polveroso, come se utilizzasse la ghiaia sollevata dai zoccoli degli animali per immergere il protagonista nella bolla che è il proprio stesso desiderio caotico, tra il fermarsi e accelerare ancora la propria vita, pur nel paradosso di non avere direzione, perché sempre si tratta di correre all’interno di un ring da rodeo, cercando di controllare chili e chili di muscoli che hanno il solo scopo di scrollarsi di dosso il dominio del proprio cavaliere, nella fiammata dei pochi secondi in cui si decide tutto, per la vita e per la morte. La scena che mi è rimasta impressa –letteralmente- da qualche parte dentro me è ovviamente quella in cui Mitchum torna alla sua (non più sua) vecchia casa, quella in cui è cresciuto. Ora è un campione sebbene in declino, un uomo importante e rispettato, eppure non visto scivola sotto le assi del pavimento sospeso da terra, fa forza (con un coltello?) sulle nervature del legno, apre qualcosa da cui estrae dei giocattoli (macchinine? Soldatini? Non ricordo…), e lui che resta sollevato dallo scoprire che tutto era rimasto, sospeso, per anni, quando tutto fuori era cambiato. Quel rifugio aveva conservato la propria parte infantile, quella intima e innocente prima di una deflorazione morale a cui smarriti ci si consegna impreparati, di cui si considera immeritato l’impatto doloroso, come quando si colpisce l’anta di una finestra aperta e la prima reazione d’istinto è quella di prendersela con quello spigolo appuntito capace di meditare una trappola tanto infida. Ecco che il rodeo è per Mitchum-McLoud lo spettacolo in cui ci si concede la possibilità di rivivere quell’impatto ma in maniera rovesciata, con la certezza malcelatamente rabbiosa di non essere più il bambino di un tempo, smarrito, incerto, ma l’eroe che domina la furia della tempesta morale di cui più non si aspetta l’impatto ma ora lo si cerca, forti della certezza del campione che domina l’evento piuttosto che esserne dominati. Quando Mitchum-McLoud si sentirà abbastanza stanco di dover sostenere questo complesso armamentario rappresentativo per sé e per gli altri, si concederà alla deflorazione ultima, la morte, con la consapevolezza che è vano cercare una ragione, o –peggio- una rivincita. Questa si mostra seducente quando Jeff si accorge che Louise non cessa di ammirarlo, proprio lui, l’eroe malandato che giocava al rodeo e che torna con una vestigia di uomo che mostra crepe sempre più imbarazzanti. Questi sono i personaggi elettivi di Ray, cioè bambini coperti da una complessa e teatrale corazza che li fa uomini contro ogni evidenza, troppo presto forse gettati nel campo della vita quando ancora era acuta la necessità di una protezione senza ‘se’ e senza ‘ma’ da parte di una madre accorta, alla ricerca di una donna che sappia proteggerli quasi maternamente, e che senza parlare guarisca le ferite prodotte dal proprio orgoglio in frantumi. Si tratta di uomini che giocano con le pistole (Johnny Guitar), che cercano di tenere il destino per le corna (La donna del bandito), di adolescenti in cerca di un padre (I bassifondi di S.Francisco), di poliziotti che non hanno altro modo di essere uomini che giocare a fare il duro, cioè a ripararsi dentro la corteccia di un involucro (Neve rossa). Forse Jeff può ricongiungere quel bambino violato con una possibilità di pace che quella donna –Louise- gli può offrire. Ma lei è sposata ad un uomo che ha la stessa febbre di Jeff: sogna di diventare un cow-boy da rodeo. Ecco che l’inganno di cui Jeff crede di essere stato vittima, può essere usato a proprio vantaggio: accarezza l’idea di uccidere il marito di lei per ottenere una rivincita sulla ferita infantile e così suturarla attraverso Louise.  Perché un sogno candido e infantile viva, è necessario che qualcosa debba morire. Ecco che Jeff si consegna alla morte per amore, per stanchezza, per orgoglio, per permettere attraverso il proprio sacrificio la nascita di qualcosa di puro, di ingenuamente vivo, il sogno di un ranch tutto proprio, ossia tutto quello che Jeff sa di non poter avere, e in nome di questa impossibilità, concederla all’altro.  Ecco l’eroe rayano, capace di tutto, di discese repentine agli inferi ma anche di gesti senza senso, generosamente assurdi, tutti simbolici nella disperazione di disegnare meglio che si può l’angoscia che divora ogni desiderio, fino a scoprire che non si desidera una donna, o –attraverso lei- una famiglia, ma si desidera tornare all’inorganico, si desidera morire, lasciando all’altro la faticosa quanto penosa ricerca del perché, seguita poi dal godere dell’eredità lasciata da Jeff: un sogno che si può continuare ad inseguire nello spazio aperto dalla sua morte. Ecco tutto quello che ricordo a partire da quella immagine de “Il temerario”.

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