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L'accabadora

Regia di Enrico Pau vedi scheda film

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reginaldo18

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La recensione su L'accabadora

di reginaldo18
10 stelle

Le rovine di Cagliari nel 1943: uno scenario contingente ma tragicamente attuale e universale che evoca le immani conseguenze materiali e psicologiche della guerra. Tra le macerie della città, una donna trae forza dalle proprie fragilità per affrancarsi da un passato insostenibile e scoprirsi tenera protagonista della propria esistenza.

Il cinema sa, a volte, riscoprirsi “lanterna magica”, per cogliere quanto di essenziale e inosservato è insito nell’universo umano. Enrico Pau, anche con il suo bellissimo L’Accabadora, esprime la sua natura di poeta-ricercatore e, varcando i confini dell’ovvio, del banale, trascende anche i confini del tempo. Con Pesi leggeri  e Jimmy della Collina il regista ci aveva condotti nella dimensione quotidiana e sofferta di una città, Cagliari, il cui inalienabile rapporto col mare permetteva un confortante sentimento di apertura alla ri-nascita e speranza, in grado di mitigare gli affanni dei protagonisti. Con L’Accabadora  Pau compie un viaggio a ritroso nel tempo, che aiuta a ri-trovarci in un momento sospeso, cruciale e drammatico della nostra storia e in particolare della storia della sua città, (delle vicende individuali dei suoi abitanti), in cui il mare non può più, scompare, come la speranza, dal nostro sguardo, nascosto dal fumo delle bombe: i bombardamenti massicci del 1943 fanno parte di quei ridimensionamenti bruschi che la storia infligge alle persone, per riporle davanti allo splendore della propria umanissima fragilità. La protagonista è significativamente una donna, che nella Cagliari martoriata di quei giorni immerge la propria struggente fragilità.  Annetta (bravissima e intensa Donatella Finocchiaro) giunge nel capoluogo alla ricerca della giovane nipote Tecla  (una convincente, e promettente, Sara Serraiocco), fuggita dal paese. Nella sua personale Odissea nei meandri delle rovine fisiche e dell’anima della città, Annetta scoprirà, attraverso lo strazio, la paura, la fame, la disperazione, ma anche attraverso l’amore, la solidarietà, l’estrema pietà per l’altro, che il suo viaggio è, soprattutto, una fuga da una condizione personale, da un ruolo assegnatole da altri (“una fossa in cui sono stata seppellita”): quel “compito” supremo e terribile di “donare” la morte, così come si dona la vita, che non può che essere, nella antica controversa tradizione orale sarda, un “compito femminile”. Prigione troppo stretta e fardello troppo pesante per chiunque. Il cambiamento “evolutivo” della protagonista, di cui è parte indissolubile la figura del medico che Annetta incontrerà tra le brande degli ospedali improvvisati (bellissima l’interpretazione senza doppiaggio di Barry Ward), è emblematico di un universo femminile che oggi come allora cerca, a volte anche solo inconsciamente, di liberare la propria individualità. Un film, dunque, con una intensa connotazione femminile. Ma anche dotato di uno sguardo attento sul valore salvifico dell’amore, nella sua valenza più ampia e profonda. E mentre, attraverso l’intenso rilievo impresso nei ruoli femminili sulla dimensione della donna custode della vita e della “pietas”,  il regista richiama, come dolente contrasto, l'attuale carenza di responsabilità civica e istituzionale riguardo il tema dell’eutanasia, egli, con rimandi quasi tolstoiani, ci inchioda di fronte alle atroci conseguenze della guerra, al di là di qualsiasi confine di spazio e di tempo. 

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