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Terminator: Genisys

Regia di Alan Taylor vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Terminator: Genisys

di lussemburgo
6 stelle

Del fondante paradosso temporale si alimenta l’intero complesso dell’ultimo capitolo di Terminator, seria nata col capostipite di Cameron proprio sulla teoria del cortocircuito storico. Il film di Taylor recupera e riutilizza tutto il materiale precedente rifondando la stessa narrazione classica e canonica del ciclo, con un’operazione di rilettura e correzione già attuata sin dal secondo opus dallo stesso Cameron, quando la tram dal primo film veniva ripresa variata e Schwartzenegger riciclato come androide riprogrammato e difensivo. Genisys, come suggerisce il titolo stesso, è una riscrittura totale e una reinvenzione del tracciato che, sfruttando il principio del balzo temporale, annulla e corregge quanto in precedenza visto e vissuto così da affrontare scenari in apparenza inediti. Come già fatto dal reboot di Star Trek di Abrams, il passato viene deviato e il presente spostato su un percorso alternativo che libera da ogni laccio di deferenza e di rispetto dall’ossequio del percorso già esplorato per conferire maggiore linfa creativa alla scoperta di un paesaggio noto nell’insieme ma sconosciuto nei dettagli. In questo senso, il film diventa un divertito e compiaciuto metatesto che mette costantemente in scena le sue stesse regole di scrittura e le denuncia per redigere un contenuto trasformato in dialogo per i personaggi che, disorientati e consapevoli, fanno riferimento ad eventi alterati e affrontano una narrazione in itinere di cui devono ancora scoprire ed evitare le insidie. Poiché il passato è costituito dai precedenti capitoli del franchise, cinematografici quanto televisivi con The Sarah Connor Chronicles, Genisys cita ampiamente i suoi predecessori secondo le modalità approntate e teorizzate con divertimento e arguzia in Ritorno al Futuro II, andando però, volutamente, ad incidere sul tracciato degli altri film per apportarvi utili varianti. Se si sembra prendere le mosse dall’ambientazione di Terminator: Salvation, col Reese infante e John Connor icona della Resistenza (tralasciando gli orpelli familiari accennati in quel frangente), il film torna poi repentinamente all’origine con lo sbarco di Reese nel 1984 nelle immagini e al tempo del primo salto, meticciato subito con interferenze di Judgement Day e un Terminator di metallo liquido. Ma già nel momento dell’apparente disfatta delle macchine raccontata in questo capitolo e del salto temporale conseguente al teletrasporto del primo cyborg, un colpo di scena modifica il passato e sbalza il protagonista e tutta la narrazione in un universo alternativo in il cui meccanismo del paradosso si moltiplica e complica cambiando gli antefatti in nuovi artefatti. Come il giovane John della serie tv, Sarah è già consapevole e allenata alla sopravvivenza, oppressa dalla predestinazione del noto ma pronta ai cambiamenti dell’ignoto perché “tutto è cambiato”. L’ex-governatore della California riassume il ruolo di protettore, secondo inevitabili modalità benigne legate alla fama dell’attore e del personaggio inaugurate nel secondo film, e si fa tutore e genitore putativo della Connor. Schwartzenegger si trova quindi a combattere contro un se stesso più giovane (la carne umana che ricopre l’endoscheletro meccanico invecchia) e dalla missione opposta, alterando di fatto sin dall’incipit la saga che, pertanto, riparte diversa. La data di attivazione di Skynet e dello stesso conseguente Giorno del Giudizio scalano verso un nuovo futuro, raggiunto dai personaggi umani con un inedito balzo in avanti. Ma è l’intero assetto ad usufruire di un “upgrade” narrativo: Skynet da sistema di difesa computerizzato (alla War Games, debitore di un immaginario paranoico legato alla guerra fredda e alla gestione automatizzata dell’arsenale bellico) si fa piattaforma digitale onnicomprensiva in una modernità interconnessa e “cloud” (più vicina a Matrix, che di Terminator recuperava la prevalenza catastrofica dell’intelligenza artificiale e la distruzione funzionale della Terra) che non era stata presa in considerazione ai primordi della serie (e di un internet balbettante) e che, difatti, sorprende la stessa Sarah. E, come accennato dal serial televisivo prima della sospensione, i cyborg sono già attivi all’interno di società telematiche per condizionare il presente e preparare il proprio avvento. Perché, con un twist funzionale (troppo anticipato dai trailer), la novità principale del nuovo Terminator è, all’interno del consueto artificio dell’introduzione di un nuovo modello di antagonista, la trasmutazione dell’icona eroica in nemesi definitiva. Come novello Borg di The Next Generation, della stessa carne di John Connor viene convertita in sintesi artificiale, la sua figura messianica si fa divina assumendo l’onnipotenza apparente della transustanziazione biomeccanica, assumendo concretezza e perdendo l’aura mistica di una figura leggendaria. E, al contempo, Kyle Reese abbandona i suoi connotati cristologici non dovendosi più immolare per la salvezza dell’uomo, bensì combattere il suo ipotetico figlio (e padre militare indegno) nei suoi progetti di conquista del mondo. Ma è l’intero sottotesto biblico ad assottigliarsi, perdendo allusività, mentre anche il Giorno del giudizio viene rimesso in agenda in data diversa, e in discussione per l’apparente annullamento dei progetti delle neo-macchine, smarrendo il monito alla superbia dell’umanità contenuto nei primi film. A dispetto di un palinsesto narrativo interessante e dagli spunti autoriflessivi, la regia di Taylor non osa avventurarsi oltre la spettacolarità delle scene di distruzione di massa e di combattimento, peraltro già viste in molti cinecomic recenti (Spiderman per il bus sospeso, Thor e Avengers per le riprese dall’alto di palazzi implosi, ecc.), elude gli spunti dickiani presenti in Salvation (il Terminator inconsapevole) per concentrarsi sulle modifiche al corpo di Schwarzenegger, tornato centrale, e sottoposto a ringiovanimenti e invecchiamenti progressivi del rivestimento di carne, senza soffermarsi troppo sull’ironia implicita di un simile processo sul corpo così riconoscibile dell’attore. Gli altri attori sembrano quindi operare senza direzione, Emilia Clarke pare ripetere la fragile risolutezza di Daenerys Targaryen del Trono di Spade, Jai Courtney risulta abbonato all’inespressività muscolosa e alla serializzazione cinematografica (Divergent, Die Hard) e John Connor ha il volto da evidente vilain e privo di carisma di Jason Clarke (gli affezionati al Doctor Who riconosceranno la sua levigata, undicesima incarnazione in un ruolo non di contorno). Divertito e a tratti quasi auto-parodico, Terminator: Genisys ha il pregio di modernizzare l’assunto della serie, senza però imprimere stile all’insieme né scegliere incarnazioni memorabili dei personaggi classici lasciando tuttoil fardello della riconoscibilità alla rediviva star austro-americana. E, da questo punto di vista, così come dall’apertura a riflessioni dickiane e dall’utilizzo di corpi già svuotati di personalità e digitalizzati come Sam Worthington, il lavoro di Taylor risulta inferiore al Salvation del pur leggero McG, con il suo consapevole pessimismo, iscritto nei fondali post-apocalittici alla Mad Max, e la spiazzante spettacolarità fittizia di pseudo piani-sequenza. Genisys è una nuova introduzione al marchio ben noto e la promessa di ulteriori aggiunte, apocrife perché scollegate dall’universo univoco finora canonico, da cui si diparte l’ala inedita così inaugurata. Per non vietare l’ipotesi di un ennesimo sequel, infatti, lo stesso Terminator originale (T-101 poi 800) viene aggiornato e “upgradato”, come il contesto generale, assumendo la duttilità digitale del T-1000 e, nella consuetudine della scena dopo i titoli di coda, il software maligno si mostra ancora pienamente attivo e pronto per nuove sfide all’umanità.

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