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Il racconto dei racconti

Regia di Matteo Garrone vedi scheda film

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La recensione su Il racconto dei racconti

di Database
8 stelle

Una regina che pur di avere un figlio manda il marito a cacciare un drago marino, un re affamato di sesso e che si fa irretire da un tranello tesogli da una vecchia, una giovane principessa che ambisce all’indipendenza e sogna l’amore. Animali mostruosi e leggendari, trasformazioni e l’irrompere nel quotidiano del meraviglioso e del miracoloso.

Aspettando di vedere il nuovo film di Garrone all’anteprima per la stampa tenutasi oggi a Milano e a Roma in contemporanea, con in mano solo pochi elementi di trama e niente più, il pensiero è uno solo: Garrone ha visto Game of Thrones e si è lasciato irretire.

 

Vincent Cassel

Il racconto dei racconti (2015): Vincent Cassel

 

Inizia la visione e si scopre subito che non è così: il mondo in cui ci conduce Garrone, prendendo spunto da Lo Cunto degli Cunti (raccolta di 50 fiabe in lingua napoletana scritta da Giambattista Basile e pubblicata postuma tra il 1634 e il 1636), non è il mondo del fantasy moderno, di tradizione anglosassone, contaminato dal fumetto e dalla fantascienza. È semmai un mondo popolare, un mondo grande e piccolo, ma non grandioso né minimo, che mira all’originario che è nelle fiabe, fedele a quella tradizione di rilettura della fiaba tradizionale che fu per esempio di Italo Calvino, Come un salmone Garrone risale la corrente in cerca delle emozioni primarie proprie della fiabe e in un certo senso, a ben vedere, risale anche la corrente del proprio cinema. 

È lui stesso a dirlo, nelle note di regia: “Definirei il racconto dei racconti come un fantasy con incursioni nell’horror. In modo obliquo ma palpabile, questi due generi - il fantasy e l’horror - si intravedono, si respirano già nel mio percorso artistico precedente: in L’imbalsamatore e in Primo Amore gli accenti horror sono già evidenti; in Reality il piglio fiabesco ispira sia la storia che lo stile; e persino in Gomorra, oltre il realismo delle situazioni, lo spirito di alcuni episodi è quello di vere e proprie favole nere.

L’operazione è quindi anche un po’ coraggiosa: un fantasy italiano girato da un autore il cui nome, soprattutto con Gomorra e poi anche con Reality, si è legato in modo particolare al sociale e in qualche modo al politico, all’attuale quindi, attrarrà senz’altro molti sguardi curiosi. Li immaginiamo i giurati di Cannes e i critici tutti, dove il film sarà tra poco presentato, alzare un sopracciglio e pensare: questo italiano vuole cambiare registro e affrontare un genere che il cinema italiano praticamente non conosce? Davvero?

In realtà Garrone compie uno scarto a lato da ciò cui ci ha abituati ma lo fa senza seguire modelli consolidati: uno spettatore alla ricerca di quell’epos che Il signore degli Anelli ha incarnato in maniera paradigmatica, divenendo una pietra miliare imprenscindibile (anche nell’uso delle tecnologie) per tutto il genere a venire, potrebbe anche annoiarsi. Il consiglio è quindi pertanto di andarci freschi e liberi da aspettative indotte come sempre dalla pubblicità e da un trailer qui particolarmente bugiardo, accompagnato da una musica e da un montaggio che fa credere che ci si possa trovare ciò che proprio non c’è. Quindi, se andrete a vederlo, sappiate che state andando a vedere un film in cui non troverete eroi e battaglie. 

E se possiamo fare un paragone musicale al posto dello squillo delle fanfare, al posto delle orchestre, dei timpani e dei piatti e dei cento violini - al posto insomma delle musiche altamente evocative che accompagnano in genere il fantasy - qui siamo dalle parti di quegli stornelli della tradizione popolare che il lavoro dell’indimenticato Roberto Leydi ha negli anni passati magistralmente recuperato e valorizzato.

 

Bebe Cave, Guillaume Delaunay

Il racconto dei racconti (2015): Bebe Cave, Guillaume Delaunay

 

Questo non vuol dire che non manchi la dimensione ipnotica e catturante del racconto: anzi. Ma è un racconto appunto popolare, quasi infantile ( o forse sarebbe meglio dire originario) e pertanto esemplare nella sua linearità.

Intrecciando le tre storie prescelte  - quella della Regina di Selvascura, quella del Re di Roccaforte e quella del Re di Altomonte - Garrone procede portandoci in una dimensione fiabesca che utilizza magistralmente luoghi scelti con cura, scenari meravigliosi e perfetti, alle volte stupefacenti. Si va dal Castello di Donnafugata, nel ragusano, con il suo magnifico labirinto di pietra, a Castel del Monte, in Puglia; dal castello di Roccascalegna in Abruzzo a Sovana, nel grossetano: e poi la natura, con le Gole dell’Alcantara e le falesie di Statte, sorprendenti.

Tuttavia non tutto risplende: quasi si vorrebbe che la cinematografia fosse un po’ meno solare e più incantata, quasi si vorrebbe ancor più distacco dal modello anglosassone. E se la scelta di limitare gli effetti digitali, ricorrendo piuttosto a ricostruzioni artigianali operate sul set, è condivisibile, tuttavia mostra in alcune situazioni i propri limiti e alle volte l’irruzione del mostruoso o del miracoloso appaiono un po’ troppo domestici e caserecci. Difetti minori, trascurabili. Ma forse un po’ di ricerca visiva in più (che tuttavia non manca) e il coraggio di sperimentare soluzioni meno lineari avrebbe caricato di ulteriore fascino un’opera che ha sicuramente il pregio di avere una propria identità. Garrone cita tra i propri riferimenti Bava e il Pinocchio di Comencini, L’armata Brancaleone di Monicelli e anche il Trono di Spade. Ma forse se avesse guardato anche alla lezione di Paradzanov e al suo lavoro sul folklore armeno, il fascino del racconto popolare e dei suoi elementi simbolici e onirici sarebbe emerso con ancor più forza.

Una nota finale sulla scelta del cast, notevole e perfetto: un lavoro corale dove spiccano le parti di Tobey Jones, dei gemelli Christian Lees e Jonah Lees, e di Babe Cave. L’insieme dei loro volti e la qualità delle loro presenze allontana qualsiasi dubbio sul fatto che scegliere di ricorrere a un cast internazionale rappresenti un’espediente atto a garantire visibilità al film sul mercato internazionale. Forse la sola Selma Hayek è la presenza a cui avremmo potuto rinunciare a favore di qualcuno di più espressivo: il confronto con la bellezza crudele di Lena Headey, nei panni di una regina pronta a tutto per la sua prole, la vede nettamente perdente.

 

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