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The Tribe

Regia di Myroslav Slaboshpytskkiy vedi scheda film

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La recensione su The Tribe

di Peppe Comune
8 stelle

Sergey (Hryhorij Fesenko) è un giovane sordomuto appena entrato in un istituto speciale. Da parte del gruppo che detta legge nella scuola, viene sottoposto ad una serie di riti iniziatici che servono a farlo entrare nel giro di vita della “tribù”. Questi ragazzi sono dediti ai furti, gestiscono addirittura traffici di droga e fanno prostituire le uniche due ragazze del gruppo presso i camionisti che sostano in un vicino parcheggio. Una di queste due ragazze e Anja (Jana Novykova), diretta verso l’Italia nell’ambito del traffico illecito di ragazze dell’est. Sergey se ne innamora e vorrebbe salvarla da quello schifo di vita. Ma per fare questo deve andare contro le leggi del branco.

 

 

Yana Novikova, Grigoriy Fesenko

The Tribe (2014): Yana Novikova, Grigoriy Fesenko

 

 

È sempre bello constatare come il cinema rimanga un’arte viva anche grazie ai contributi vitali che provengono dai paesi più “giovani” in fatto di proposizione di una loro ampia e riconosciuta filmografia. Perché, al di là del giudizio di valore che si dà ad un film, quello che va colto è sempre lo sguardo altro che viene proposto, la possibilità di avere prospettive varie da cui poter osservare lo stato delle cose. Nelle cose dell’arte c’è un rischio alla “massificazione” anche verso le cose sublimi che stanno in alto, e se da un lato questa è una cosa talmente bella che bisogna augurarsene l’eternità, dall’altro lato è bene evidenziare che è spesso dalle parti basse che arriva quel vitalismo elettrizzante che serve ad alimentare il tutto. Per un circolo che si autoalimenta naturamene.

Questa premessa mi è parsa opportuna perché “The Tribe” di Myroslav Slaboshpytskkiy è un film a suo modo unico almeno per due ordini di motivi. Primo, perché, come recita la didascalia che precede l’inizio della pellicola, questo film “è nella lingua dei segni. Senza traduzioni, senza sottotitoli e senza voice-over”. Secondo, perché allo spettatore viene chiesto una partecipazione supplementare nella fase di raccordo tra ciò che si vede e ciò che non si sente. Nel film succede spesso (soprattutto nel tragico finale) che il non poter ascoltare dei rumori sospetti comporta il concretizzarsi di un pericolo imminente. Ecco, soprattutto in questi momenti si entra in contatto con un oggetto visivo molto particolare, capace di trasmettere ad un primo impatto una sensazione di straniante vulnerabilità, che si riesce a superare solo grazie all’estremo realismo con cui si fa aderire la storia alla condizione esistenziale dei giovani protagonisti. “The Tribe” non fornisce nessun appiglio cinematografico di supporto, né dialoghi, né suoni, né marcate ingerenze di montaggio. Solo le immagini nude ci vengono fornite, che chiedono di essere viste nella loro esclusiva particolarità narrativa. Quanto basta, insomma, per indurmi a riflettere sulla differenza tra un film muto e un altro in cui non si parla. Nel primo caso, si parla di uno momento cinematografico irripetibile (e questo a prescindere dalla contingentata necessità che lo ha visto produrre il suo stile), una pagina della storia del cinema che conserva una sua purezza originaria ancora riconosciuta, fondata sull’assenza della voce degli attori e nella presenza di artifici cinematografici, quali le didascalie e la musica extradiegetica, che fanno da supporto narrativo al susseguirsi delle scene. Nel secondo caso, invece, l’assenza di qualsiasi artificio cinematografico serve per far emergere ulteriormente la presenza di questi ragazzi sordomuti, una tribù che intreccia rancori e accumula malessere. Questi ragazzi convivono con dei rumori che non possono sentire e la cosa particolare di “The Tribe” sta proprio nel far risaltare i rumori al naturale come l’unica cosa veramente udibile, come l’unico effetto sonoro che i loro corpi sono capaci di produrre. Tutto deve ricalcare la condizione esistenziale dei ragazzi, il loro forzato mutismo è quanto riempie di senso ogni singola inquadratura. Anche i personaggi di contorno vi si adeguano, anche le parole di chi può fare uso del parlato rimangono inascoltate. L’handicap dei ragazzi dirige la volontà dei loro corpi, e il linguaggio dei corpi s’impossessa prepotentemente della scena. Il silenzio diventa così una minaccia inascoltata, un involontario alimentatore di violenza.  

Da tutto ciò ne consegue che “The Tribe” è un film che accresce di peso il senso del guardare, e ciò che vediamo è un mondo dove impera la legge del branco, dove la regola non scritta è la continua prevaricazione dell’uno sull’altro, dove la regressione morale, la violenza, persino l’odio, sono cose che non pretendono parole per potersi esprimere. Si palesano e basta, dando ai corpi la sensazione di svincolarsi dal male di vivere solo dando libero sfogo alla loro voglia di farsi ascoltare. Anche l’amore è muto, ma a differenza di tutto il resto, esige dai corpi una complicità diversa da quella che scaturisce dall’atto sessuale. L’amore vuole occhi che sappiano capire le richieste d’aiuto, ascoltare il dolore soffocato in gola, insegnare alle mani la delicatezza del tocco. L’amore è quello che sboccia nel cuore di Sergey, che però è troppo schiavo dei suoi bassi istinti per innalzarsi sopra la legge del branco, troppo chiuso in rituali iniziatici per non pensare che alla violenza subita non debba seguire una violenza prodotta. Non gli resta che guardare seguendo la scia, relazionarsi con gli altri usando quello che si ha più a portata di mano. E infine agire di conseguenza. Cercando di preservare la sua vita dal silenzio che la avvolge.       

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