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Stavisky. Il grande truffatore

Regia di Alain Resnais vedi scheda film

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La recensione su Stavisky. Il grande truffatore

di Stefano L
5 stelle

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Alexandre Stavisky, o “le beau Sacha”, fu un noto frodatore francese di origine ucraina. L'editore si ritrovò nel mirino della cronaca scandalistica quando dall’inizio degli anni trenta, su ispirazione dell’italo-americano Charles Ponzi, attuò una grossa truffa che consisteva nel manipolare la grana proveniente da obbligazioni comunali e ingenui risparmiatori promettendo ad entrambi dei cospicui tassi d’interesse. Muovendosi abilmente tra la politica, la finanza e la giustizia, con ricatti e assegni scoperti, scanzò destramente gli interventi delle forze dell'ordine, usufruendo di ogni lusso e confort, finché gli investitori, sospettandolo di aver messo su la cosiddetta “piramide di Ponzi”, sostenuta da un flusso continuo ove vi si alternavano le entrate e le uscite di denaro della sua impresa, decisero di denunciarlo, dandogli quel colpo definitivo da capo a coda che lo fece crollare e portandolo alla triste dipartita; in questo biopic del celebre regista della Nouvelle Vague Alain Resnais, ad assumere le sembianze di Stravisky c’è il gigione leggendario dal faccino pulito Belmondo, il quale dà sfoggio alla sua attitudine da eroe picaresco per accattivarsi la platea. Nel bailamme burocratico della (dis)avventura economica Stravisky si barcamena in un criptico percorso in cui dovrà scontrarsi con l’ostilità della stampa e della polizia; non mancheranno nemmeno situazioni sentimentali da pochade, giovani promettenti che vogliono approfittare dell'intuito dell'affaire per concretizzare i loro business, e rivalutazioni di stima da parte di amici e conoscenti. Gli ingredienti per un’epopea agiografica di una figura discutibile, benché interessante, ci sono: purtroppo Resnais privilegia più la forma che il contenuto e la mésse che ne viene fuori è asettica, logorata da una meccanicità narrativa sfiancante. Le traversie di Stravisky procedono per mero accumulo; manca il pathos, il quid che avrebbe dato respiro e un coinvolgimento emotivo tangibile verso l’astrusa vicenda. Lo sviluppo è una loffia riproduzione dallo stampo accademico, privata di un qualsiasi fascicolo degno di nota, di uno spessore autoriale che si allontani dall’atona rigidità di struttura inchiodata in un esercizio di stile luccicante ma specioso. Le maschere sono spente, grigie (ad eccezione dell’eloquente Pierre Vernier/Pierre Grammont) e il senso della tragedia si stempera nell’oleografia del contesto. Buona la componente tecnica, però non basta. Resnais questa volta, seppur con mezzi e strumenti ragguardevoli, non sconvolge, non commuove, non trascina.

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