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Timbuktu

Regia di Abderrahmane Sissako vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Timbuktu

di laulilla
8 stelle

Un importante film contro la barbarie dell'integralismo religioso.

Nello scenario del deserto del Mali una bellissima gazzella tenta di sfuggire all’inseguimento della jeep sulla quale un gruppo di uomini incita a gran voce il guidatore a fiaccarne la resistenza, uccidendola in modo incruento. Con questa sequenza crudele, si apre e, circolarmente, si conclude questo film, alla fine del quale, però, la gazzella assume, con un rapidissimo passaggio analogico, l’immagine di Toya, la bimba disperata, che tenta di sottrarsi agli stessi inseguitori, sopraffatta dalla stanchezza, dalla solitudine e dal dolore.

Fra la prima e l’ultima scena del film si era consumata, infatti, la tragedia della sua famiglia, oltre a quella di altre famiglie di beduini fieri e dignitosi, tutti accampati alle porte della città di Timbuctu, dove, serenamente seguendo le tradizioni della loro cultura millenaria, erano vissuti in condizioni di relativo benessere, facendo i pastori oppure i pescatori lungo il fiume Niger, o allevando il pollame.

Tutto era cambiato per loro da quando alcuni uomini armati, arrivati da lontano, ne avevano sconvolto le abitudini pacifiche e civili, imponendo norme e regole ispirate strumentalmente alla più rigida interpretazione del Corano e rendendo la vita molto difficile a tutti. Nessuno era stato in grado di opporsi al fanatismo dei conquistatori: non le donne, obbligate a indossare veli, calze e guanti per uscire dalle loro dimore, non i ragazzi, ai quali avevano vietato il gioco del calcio, non coloro che si amavano senza essere sposati (li attendeva la lapidazione, dopo la sepoltura fino al collo, nella sabbia), e neppure chi cantava, o veniva sorpreso a fumare (a loro toccavano robuste dosi di frustate).

Gli invasori avevano in questo modo sottratto alle donne, agli uomini e ai giovani, insieme alla libertà, anche ogni gioia di vivere, sebbene a sé, ipocritamente, riservassero il privilegio di fare di nascosto quelle stesse cose che proibivano agli altri, nel nome di Dio.

 

 

 

Il film nasce dall’interno del mondo islamico, di cui descrive la deriva fondamentalista e totalitaria, ciò che ha richiamato alla mia memoria un altro bel film (1997) del grande regista egiziano Yussuf Chahine, Il destino che, pur nella diversa impostazione (Il destino è un film storico), dall’interno di quella stessa cultura, metteva in guardia contro ogni forma di intolleranza integralistica sempre in agguato.
Abderrahmane Sissako, il regista di Timbuktu (originario del Mali, ma costretto a girare in Mauritania), esprime con voce tranquilla ed equilibrata una ferma protesta contro la barbarie di quel potere spietato, senza spettacolarizzare il dolore, senza ostentare rabbia, e senza chiedere vendetta. Appellandosi alla mente e al cuore degli spettatori, egli ha narrato la sofferenza di un popolo mite con linguaggio dolce e pudico, utilizzando il campo lungo per le scene più crudeli, e trasmettendoci immagini di indimenticabile bellezza, che ne rivelano la sensibilità d’animo, ma anche la profonda e sincretica cultura. Sissako ha, infatti, raccolto ed elaborato molte suggestioni del cinema occidentale, mantenendosi fedele alla sua formazione, che era avvenuta nel corso degli anni ottanta fra la Russia sovietica e la Francia. Non per nulla, dunque, la scena forse più significativa di Timbuctu, che rappresenta i ragazzi che giocano al calcio senza pallone, mimando i gesti dei campioni, nelle loro magliette colorate, cita sorprendentemente la partita mimata dai tennisti di Blow Up.

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