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Mia madre

Regia di Nanni Moretti vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Mia madre

di laulilla
7 stelle

"Un misto tra una sgangherata seduta psicanalitica e un disordinato esame di coscienza in un’atmosfera da limbo”. Così Fellini, presentando 8 e 1/2. Ho qualche dubbio che, nonostante le abbondanti citazioni felliniane di "Mia madre", quelle parole si adattino a questo film...

 

Margherita (Margherita Buy) fa la regista cinematografica; è scontenta del suo film e ne addossa la colpa all’operatore, le cui riprese sono troppo a ridosso della finta polizia, intenta a caricare i finti operai in procinto di occupare la fabbrica in vendita. Allo stesso modo è scontenta degli attori che dovrebbero prendere maggiormente le distanze dal personaggio che interpretano.

L’ideale sarebbe tenere distinta la realtà dalla sua rappresentazione, e ricordare che la prima può ispirare la seconda, ma non deve coincidervi, pena l’impressione di artificio che ne deriverebbe.

E’ prossimo ad arrivare, intanto, l’attore più importante (John Turturro) per il ruolo del dirigente industriale italo-americano acquirente della fabbrica, che intende risanare con cura d’urto.

 

Piovendo dal cielo, letteralmente e metaforicamente, l’attore si muove davvero come un pesce fuor d’acqua e molto spesso non ricorda le battute, forse perché gli risultano incomprensibili, forse perché gli sta venendo meno la memoria. Fuori dal set, Margherita ha una vita simile a quella di molte altre donne: qualche problema sentimentale, dopo la separazione, risolto sbattendo fuori di casa il giovane amante; una figlia (Beatrice Mancini) con poca voglia di studiare; una madre, Ada (Giulia Lazzarini), ex insegnante di lettere classiche al liceo; un fratello ingegnere, Giovanni (Nanni Moretti).

Da un po’ di tempo la vecchia Ada è in ospedale malata e condannata a morire: da quando Giovanni ne ha preso coscienza, si è messo in aspettativa per dedicarle quell’accudimento amorevole che renderà a lei (e anche a lui, però) meno pesante l’addio: nulla lo consolerà meglio, dopo, della coscienza di averle reso meno penoso il distacco, che avverrà, infatti, nell’affetto dei figli e della nipotina, nella bella casa piena di libri e nel ricordo ancora vivo degli studenti che aveva preparato alla vita.

 

Giovanni, dunque aveva cercato di razionalizzare l’evento ineludibile; Margherita, invece, aveva assunto un maggiore distacco dal proprio lavoro e più prontamente ne aveva colto limiti e contraddizioni. Il diverso modo con cui Margherita e Giovanni affrontano l’annunciata morte della madre è la sostanza solo apparente del film, poiché i due personaggi sono in realtà riconducibili alla sola persona del regista che in questo come in tutti i suoi film parla di sé.

 

Qui, in maggiore misura che in La stanza del figlio, il tema della morte permette a Nanni Moretti di esprimere la propria crisi esistenziale, forse perché la morte della madre, per lui come per tutti, rappresenta sul piano simbolico lo strappo definitivo col passato e anche l’opportunità per riesaminare autocriticamente ciò che siamo stati, ciò che abbiamo fatto, ciò che ci attendiamo dal futuro.

 

 

 

 

Come ho scritto nel mio commento breve, sebbene le citazioni felliniane qui abbondino (non manca neppure il riferimento a Le tentazioni del dottor Antonio: bevete più latte!), non credo che la crisi di Margherita – Giovanni – Nanni, abbia molto in comune con la crisi di Guido, poiché, secondo me, è la crisi soprattutto dei suoi e probabilmente dei nostri riferimenti politici che, di fronte alla realtà completamente mutata, mostrano tutta la loro improponibilità evidenziandone l'incomprensibile finzione: abbiamo perso la memoria, come John Turturro ed è insensato che continuiamo a raccontarci la favola bella che ieri ci illuse, poiché oggi non ci illude più.  

Oggi, quando per davvero la messa è finita, molto più soli ci ripieghiamo sulle tragedie personali, più intime, come Giovanni, né sappiamo se sarà la dimensione privata a fargli trovare il linguaggio nuovo che sta invano cercando.

 

Forse, allora è meglio che la narrazione cinematografica assuma modelli meno gloriosi: Haneke (Amour è certamente presente nell’immaginario morettiano), o addirittura Denys Arcand, che nel suo Le invasioni barbariche è forse il regista che può avvicinarsi di più al racconto morettiano della fine, dolce, fra le persone amate.

 

Fellini e anche Wim Wenders, splendidamente citato nella rappresentazione degli spettatori in coda per ri-vedere (appunto!) Il cielo sopra Berlino, sono legati, forse, ai giovani che siamo stati e che non saremo più.

 

Film ottimamente recitato, molto ambizioso, per molti aspetti interessante, con alcuni grandi momenti di riflessione meta-cinematografica.

Non sempre mi ha pienamente convinta, ma ritengo che sia sicuramente da rivedere e meditare.

 

 

 

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