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Boyhood

Regia di Richard Linklater vedi scheda film

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La recensione su Boyhood

di giancarlo visitilli
8 stelle

E se scoprissimo che tutta la nostra vita non é altro che una sceneggiatura, scritta in un tempo che ha la durata di tutta la nostra esistenza? A tal proposito, non è solo un film, Boyhood: è esperienza di vita, nel suo divenire.

Il geniale regista texano, lo stesso della trilogia, Prima dell’alba, Prima del tramonto e Before Midnight, Richard Linklater, già aveva raccontato il ventennio di una coppia, utilizzando sempre gli stessi attori e seguendoli dal loro primo incontro, l’innamoramento, alle crisi succedutesi dopo. Quasi per rivendicare una sua concezione del tempo-cinema, per determinarne ogni passaggio, fissandolo per sempre in un sistema fluido, Linklater descrive la crescita di un bambino, dai sei anni e fino all’adolescenza. Sembra un qualcosa di così tanto semplice. E invece, per circa tre ore, non si smette mai di essere disorientati dinanzi alle immagini che passano e la sensazione reale è come quando si è a casa e si sfogliano vecchi album di fotografie: i cambiamenti impressionano e non ci si accorge se si era più riconoscibili a quel tempo o nel tempo reale. Boyhood lo si guarda e ci si chiede continuamente dove finisce il reale, quando e se comincia la finzione. Nessuna risposta. L’unica possibilità è il perdersi, nel buio della sala, mentre il tempo scorre inesorabile e lo spettatore è continuamente in compagnia di Mason, della sua consapevolezza legata al cambiamento fisico, interiore e di un’esistenza “relegata in un limbo, in cui è difficile l’accessibilità agli altri”. E con il bambino prima, e l’adolescente poi, si fa l’esperienza dell’esserci. Del qui ed ora. Attore/spettatore.

Boyhood, a giusta ragione, ha entusiasmato quelli del Sundance e poi il pubblico e la critica di Berlino, aggiudicandosi il meritatissimo Orso d’argento per la regia. Realizzato con un budget risibile, di 4 milioni di dollari, e con attori non professionisti, ad eccezione dei due interpreti della mamma e del papà di Mason, affidati all’eccellente Ethan Hawke (presente anche nella trilogia) e alla bravissima Patricia Arquette. La genialità di questo film, oltre alla sua realizzazione, cominciata nel 2002, seguendo il passaggio del tempo reale sulla pelle dei suoi attori, consiste nell’unicità dell’esperienza della visione. L’unico rimando è al rapporto Truffaut-Antoine Doinel. Documentario, finzione, iperrealismo, surrealismo? O semplicemente il cinema che si fa?

Perché lo straordinario Ellar Coltrane, che interpreta Mason, è innanzitutto, per lo spettatore, presenza che cambia, in ogni fase della sua crescita, questa assurta come rito, passaggio per passaggio, accanto alla Lorelei, che interpreta sua sorella, a sua volta figlia reale del regista. Di loro seguiamo tutti i passi che li conduce alla presa d’atto di una vita in cui “lo stato delle loro anime non ha mai interessato”, soprattutto a suo padre. Con loro, si vivono, soffrendo, il continuo sbarazzarsi, da parte di adulti, propensi alle loro cose, e l’abitudine ad una serie di ‘traslochi’, in cui le vite umane diventano come fossero pacchi postali, che il tempo e l’età trasportano, cambiano, ammaccano. Linkleter, che conosce bene ogni fase, nel frattempo, documenta, anche in questo, con minuziosa verità, gli oggetti, i luoghi, le condizioni sociali in cui si sviluppa la storia, a cominciare dai primi giochi elettronici che occupano e riempiono i vuoti di Mason, lasciati non solo da altri ‘giocattoli’, compresi quelli come mamma e papà. Il regista viviseziona ogni fase della crescita, dall’innamoramento e le delusioni, senza evitare la trasgressione e la morte, la guerra, quella di quegli anni successivi all’11 settembre, con la guerra in Iraq, nell’era Bush, fino alla campagna elettorale a favore di Obama. Nel frattempo la crescita interroga la politica e quest’ultima non riesce a supportare alcuna vita che avanza.

Il finale del film, è altrettanto spiazzante, quanto tutta la storia, con Mason, ormai uomo, alla conquista di un proprio territorio, questo si, almeno questo, immaginario, ma non finto. Bella immaginarla come una sorta di conquista del West, di un proprio ‘west’, da parte di Mason, visto che, oltre ai paesaggi delle sequenze finali del film che si prestano, se ci si pensa proprio bene, in fondo, Boyhood é la celebrazione di un cambiamento, che forse non ha luoghi, è in ogni spettatore, consapevolmente alla certezza dello stesso protagonista del film, abituato a convivere con poche certezze, compresa quella del buio oltre la siepe, a cui Mason, si abitua, sin da adolescente, sapendo che, come per i grandi poeti, ciò che sta oltre e che dallo sguardo è escluso rende il viaggio inimagginabile.

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