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Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza

Regia di Roy Andersson vedi scheda film

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La recensione su Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza

di spopola
8 stelle

Lo sguardo è disincantato e amaro ma venato di un umorismo sottile. I suoi personaggi teneri, smarriti, disarmati e disarmanti, sono scrutati (quasi vivisezionati) sempre frontalmente. figurine imprigionate nell’incomunicabilità di un mondo pieno di muri e di barriere che si illudono di comprendere il senso del piacere attraverso la sua negazione

Nell’ormai lontano 2007, scrivendo con palese entusiasmo della precedente fatica di Roy Andersson (You, the Living, //www.filmtv.it/film/37484/you-the-living/ ), parlavo del regista come di un innovatore che ha avuto il coraggio di rompere gli schemi della classica struttura del racconto cinematografico per rappresentare in maniera assolutamente anticonvenzionale il suo universo di riferimento, un piccolo campionario di umane debolezze messo in scena con una forma  smagliante e stilizzata che sembra rifarsi al teatro dell’assurdo (Beckett in particolare) e che non teme il pericolo dell’incoerenza narrativa, che è diventata non solo la sua arma vincente, ma anche l’elemento di maggiore riconoscibilità del suo particolare stile.

Parole e concetti, che possono benissimo essere utilizzati  anche per Un piccione seduto su un ramo a riflettere sull’esistenza (apprezzato, meritatissimo Leone d’oro dell’ultima rassegna veneziana) arrivato dopo ben sette anni di silenzio ma che (non a caso) è poi  il tassello conclusivo (anche se il regista non ha escluso la possibilità di realizzare in futuro pure un quarto capitolo) di una  trilogia sull’”essere un essere umano” iniziata nel 2002 con l’altrettanto straordinario Songs  from the Second Floor , e proseguita poi con il già citato You, the Living.

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Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza (2014): scena

Ora che abbiamo un quadro più completo dell’insieme, possiamo dunque meglio valutare l’eccellente qualità complessiva (e anche l’importanza) di questo trittico metafisico e astratto, crudele e al tempo stesso giocosamente grottesco e surreale, con cui il regista ha messo alla berlina i paradossi dell’esistenza e che in questo suo ultimo capitolo si estrinseca con una modalità del raccontare, se possibile ancora più intrigante ed estrema che in passato, come se nel trascorrere di questi quattordici anni (tanti ne sono passati  dall’inizio della sua avventura) la lente del suo sguardo (e della sua indagine conoscitiva) nello spostarsi lentamente dal concetto di vita a quello di morte, si fosse ulteriormente affilata per rendendersi ancora più tagliente  ed essenziale[1] dentro a una visione complessiva che – adesso lo possiamo affermare senza tema di essere smentiti – ha  definito i contorni di una filosofia interessata a stimolare una ponderazione (personale e collettiva)  sul significato ontologico del vivere e dello stare al mondo dell’individuo.

Anche questa volta, partendo da tre folgoranti incontri con la morte (un anziano che sia accascia sul pavimento dopo aver stappato una bottiglia mentre la moglie è intenta a cucinare; un’anziana signora prossima alla dipartita  e ormai in agonia che non molla la presa sulla borsa che contiene i sui gioielli che non vuole lasciare in eredità ai suoi tre figli;  il passeggero di un traghetto che muore  dopo aver pagato il pranzo) Andersson produce poi una riflessione (esistenzialista) su quelle che lui considera  essere le principali “malattie” che inquinano il mondo (la mancanza di empatia e di rispetto, i soprusi[2])  che si riscontrano tanto ai giorni nostri, quanto nell’analisi che può essere fatta dei tempi di un passato anche lontano[3], frullando (alla sua maniera) Hopper con Bruegel (a partire dal titolo che è stato ispirato proprio da un dipinto di Bruegel il vecchio[4]) e Otto Dix[5]  (dichiaratamente indicato come principale ispiratore della sua stralunata, singolarissima messa in scena). Il tutto, inserito in ambientazioni un po’ asettiche e minimali che si potrebbero benissimo definire in “stile Ikea”, all’interno delle quali prende forma questa  sarcastica, profana rappresentazione, vera e propria commedia umana dell’assurdo (a mio avviso ancora più beckettiana della precedente) che si sviluppa attraverso le vicende (si fa per dire) di due singolarissimi commessi viaggiatori che vendono canini extra lunghi da vampiro, sacchetti che ridono e maschere con dente solitario, e di una moltitudine di altre figure del presente e del passato come, fra le tante,  Re Carlo XII di Svezia in partenza insieme alle sue truppe per  la campagna di Russia dalla quale tornerà poi mestamente sconfitto a causa del disastroso esito della battaglia di Poltava, o la locandiera Lotte la Zoppa che offriva un grappino “a 50 cent se alla barista dai un bacino” in una scena musicale (che non manca mai nel cinema di Adersson ) fra le più godibili e riuscite di tutta la pellicola.

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Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza (2014): scena

 

Esattamente come già aveva fatto nelle sue due precedenti fatiche, anche questa volta il regista gira il tutto affidandosi al rigore delle riprese a camera fissa, utilizzando una tavolozza di colori spenti che vanno dall’ocra degli interni al verde pallido, dal beige al grigio (mortaccini li ha definiti Federico Pontiggia)  che volutamente tolgono profondità alla scena  e appiattiscono ulteriormente anche le psicologie di chi ci si trova inglobato dentro, e che risultano particolarmente indicati per rendere più esplicito il necessario “straniamento esplicativo” che ha inteso dare al risultato: Mi ispiro ai clown dipinti di bianco del circo – ha dichiarato in un’intervista – nonché al teatro Nõ giapponese, una sorta di Shakespeare recitato con le maschere bianche: se hai un dialogo tra due attori mascherati, presti più attenzione a quel che si dicono. In ogni caso, oggi la gente ha paura di perdere la maschera, di rivelarsi, di denudarsi.

Viene confermata anche l’analoga modalità espositiva già sperimentata in passato che in questa sua ultima fatica si articola in 39 scene (“mise en cadre” le ha giustamente definite Andrea Bellavita, che ci rileva dentro, proprio nelle sue predisposizioni d’immagine perfette, qualcosa che fa pensare  alla fotografia di Gregory Crewdon – il rinomato fotografo statunitense celebre in tutto il mondo – per l’ ironia e la capacità di costruire un fuoricampo – sempre presente in ogni fotogramma - anche più forte dell’inquadratura stessa), molto stilizzate e realizzate con  grande accuratezza e maestria , come se fossero dei veri e propri tableaux vivants che “mostrano” figure quasi del tutto prive di espressività totalmente avulse le une dalle altre, come a voler sottolineare così la piattezza infelice di esistenze  forzatamente condivise  con quelle altrui, ma prive di “comunicazione” reale.

Il tono di questa particolare osservazione del quotidiano, è dunque volutamente grottesco (lo ribadisco volentieri), attraversato da un umorismo acido che definirei persino un po’ macabro e dissacrante, come se l’intenzione  fosse quella di celebrare con un’omelia profana e una lunga serie di decessi volutamente ridicoli, insulsi e surreali, la solitudine dell’esistenza. Una specie di  silenzioso canto funebre in cui i personaggi  (uomini e donne che hanno eletto  l’infelicità e  l‘insoddisfazione a  condizione di vita) finiscono per diventare interpreti di una recita in cui i gesti e le parole sembrano avere ormai perso ogni significato (nel rapporto col “reale”) sia per la reiterazione priva di senso al quale sono soggetti (bere, mangiare, dormire,  cantare una canzone, andare al bar) che per il fatto di essere ribadite pigramente e in maniera quasi automatica (come la frase ci fa piacere che state bene ripetuta così tante volte da perdere davvero di significato).

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Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza (2014): scena

Lo sguardo di Andersson è disincantato e amaro (anche se venato di un umorismo sottile  che ha una matrice di riconoscibilità proprio nella cultura dei paesi del nord Europa, un po’ alla Kaurismaki insomma si potrebbe dire, se mi consentite  l’improponibile paragone che serve solo a rendere l’idea di cosa intendo affermare) e i suoi personaggi (teneri, smarriti, disarmati e disarmanti) scrutati (quasi vivisezionati) sempre frontalmente e a distanza ravvicinata, “figurine” imprigionate nell’incomunicabilità di un mondo pieno di muri e di barriere, abitato da individui che sono ancora vivi pur essendo già morti (Lorenzo Rossi) e che si illudono di comprendere il senso del piacere  attraverso la sua negazione (e qui si ritorna ai due “tragicomici” venditori di quegli scherzi tristi e squallidi a cui accennavo all’inizio, novelli Vladimiro ed Estragone alla ricerca di un Godot che non arriva mai che fanno ritorno di sera nella casa di riposo in cui vivono - e qui ci si potrebbe leggere anche qualche piccolo residuo pinteriano –  dove uno dei due ascolta sempre lo stesso 45 giri, tra angoscia esistenziale e nostalgia del passato, o al re Carlo XII che si ferma  in un bar di Göteborg per bere dell’acqua, fare pipì e concupire una giovane barista, fino ad arrivare alla fantasia macabra, crudele e cinica sugli  immigrati africani che vengono arrostiti per trarne morbide armonie[6] da un’accolita di aristocratici anziani ed annoiati che ricerca la propria soddisfazione nel dolore degli altri,  o a quell’ ex capitano di lungo corso angosciato per un appuntamento cancellato che si prende in carico un salone di parrucchiere, e persino all’insegnante di flamenco molesta che tormenta il suo giovane allievo).

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Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza (2014): scena

Il risultato di questo incerto vagare fra la vita e la morte che parla di noi e a noi si riferisce (una serie di sketch dei Monty Python sceneggiati da Ingmar Bergman[7], come qualcuno ha definito l’opera del regista), evoca dunque una società  decomposta che ha smarrito la sua umanità e nella quale non solo è stata bandita la riflessione, ma anche  gli interrogativi esistenziali finiscono per cadere nel vuoto: la critica è dunque feroce e il pessimismo abissale e senza appello.

Non escudo che questo Piccione possa risultare indigesto a più di uno spettatore (sarà in ogni caso qualcosa di abbastanza diverso da ciò che ha visto finora) ma credo fermamente che valga la pena di accettare il rischio di andare a vederlo, perché poi  alla fine se si ha la pazienza e la costanza necessaria, si può anche riuscire ad entrare in sintonia con questa particolare modalità di rappresentazione. Ci si accorgerà allora che il film ha sì un forte retrogusto amaro, ma è tutt’altro che tragico nella sua esposizione, e che il suo intelligente gioco dei rimandi (dal colonialismo agli esperimenti sugli animali[8]) rende abbastanza chiara e leggibile anche l’importanza del messaggio, che intende esprimere una critica feroce sui malesseri, i disagi e soprattutto le turpitudini passate e presenti dell’Occidente e del vivere comune.

 

 

[1]Sì, e come Matisse – sono parole dello stesso Andersson – dico: ‘levatemi tutto ciò che non è necessario!’ Le mie immagini oggi sono pulite, purificate, e voglio che siano universali e senza tempo; per questo preferisco avere lo stesso cielo sopra gli attori e non amo che ci siano dei colori troppo accesi nel vestiario”.

[2]La tensione che c’è nell’esistenza tra banalità e serietà, questo è per me il significato del mio film. Ci sono due o tre temi  – è lo stesso regista ad affermarlo – che a mio avviso sono più importanti degli altri: la mancanza di empatia, qualcosa di molto brutto che oggi sta aumentando; la mancanza di rispetto, che analogamente è in ascesa; la vulnerabilità, perché sono così triste quando vedo gente vulnerabile che viene umiliata. Già, anche l’umiliazione mi preoccupa assai. Che dire ancora, è un film sulla vita, non so come potrei dirlo più chiaramente: esperienza, situazioni, qualche volta la vita è così comune da non essere interessante, viceversa altre volte lo è molto, e ne rimango affascinato e spaventato insieme”.

[3]Amo davvero questa mescolanza, anche di tempo, e in questo film ho inserito molti esempi di ucronia, un mix di passato e presente e no time nella stessa inquadratura che spingono le scene verso il surreale”.

[4] Secondo le dichiarazioni dello stesso Andersson, l’ispirazione è scaturita dalla visione di quell’uccello (anche se lì sembra essere più una cornacchia che un piccione)  che nel quadro di Bruegel osserva dall’alto di un ramo le vite degli uomini farsi piccole e insignificanti.

[5] Di origini proletarie e grande estimatore dei Van Gogh, il pittore tedesco Otto Dix (1891-1969) è stato uno dei più importanti esponenti della corrente Neue Sachlichkeit (Nuova oggettività). Dipinse le sue opere più note e conosciute  durante gli anni della fragile Repubblica di Weimar. 

[6]Nel capitolo homo sapiens – è di nuovo Andersson che parla – inquadro quel che gli esseri umani fanno nella storia, cose crudeli come il colonialismo o gli esperimenti sugli anomali. Il cilindro in cui vengono fatti entrare dei neri per essere arrostiti, è una citazione da Hieronymus Bosch. Si tratta comunque soprattutto di un organo appositamente  creato dagli assiri, che erano molto crudeli con i popoli vinti e costruivano ad hoc terribili macchine di tortura come questa”.

[7] Le tematiche esistenziali che l’opera contiene, pur espresse in una forma e un linguaggio totalmente  diversi, possono in parte legittimare questo accostamento, ma ci si ferma lì. Di fatto, il contatto (reale) fra Andersson e Bergman c’è stato davvero e Andersson lo ricorda così: “Quando sono andato alla scuola di regia, Bergman era l’ispettore scolastico. Due volte l’anno finivamo nel suo ufficio,e lui ci diceva quel che andava e quel che non andava. Eravamo alla fine degli anni ’60, c’era la protesta contro la guerra in Vietnam: scendevamo in strada a filmare le manifestazioni, io e i miei compagni di studi, ed erano questi i filmati che venivano sottoposti alla sua attenzione. Bergman si arrabbiava moltissimo (anzi posso affermare he andava su tutte le furie) perchè stavamo usando in questa maniera (lui la riteneva poco ortodossa), la macchina da presa e le attrezzature della scuola: “se continui a fare film su cose politiche non farai mai un lungometraggio” mi disse un giorno. Era un avvertimento, appunto, ma io non avevo paura di Ingmar Bergman e non ne tenni conto: sapevo già  che non sarei tornato sui miei passi e, che sulla lunga distanza avrebbe perso lui quella battaglia . Possono esserci delle analogie tra il mio cinema e il suo, ma Ingmar non aveva umorismo: questa è la più grande differenza”:

[8] Non si indignino gli animalisti per quello che vedranno nella scena della scimmia sottoposta a elettroshock,  perché  come ha confermato il regista, “è una scimmia artificiale, fatta a mano. Non utilizzerei mai un animale vivente per l’elettroshock, ma quella scena fa vedere quel che succede nel mondo: utilizziamo altre specie in modo crudele. Vero è lo scheletro ma le altre cose sono artificiali, dentro c’è un meccanismo fantastico. Sì, è una scimmia molto ben fatta, e molto costosa, ed è per questo che sa di “reale”.

 

locandina tedesca

Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza (2014): locandina tedesca

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