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Il regno d'inverno - Winter Sleep

Regia di Nuri Bilge Ceylan vedi scheda film

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La recensione su Il regno d'inverno - Winter Sleep

di OGM
8 stelle

Il gelo blocca e conserva. Utilizza una morte apparente per posticipare il cambiamento. Ha l'aspetto grigio di una verità già consumata, di una promessa sospesa. Eppure, al suo interno, la vita continua a pulsare. Disperatamente, senza pietà, scandendo la durissima prosa di un'anima prigioniera.

Il male. È freddo e silenzioso come l’inverno. Inattaccabile da parte del calore umano. Inutile la vicinanza: è un luogo lontano da tutto, dove, pur riuscendo ad arrivarci, non si può restare a lungo. Bisogna andare oltre, e dimenticare. Per chi lo pratica, invece, quella è la casa per sempre. Aydin è proprietario di un albergo sperduto tra le montagne della Turchia. Una piccola costruzione in pietra circondata dalle rocce, sepolta nel fango, coperta dalla neve. Un rifugio per pochi, sporadici viandanti, gente alla ricerca di non si sa che cosa. Aydin si è fermato lì, dopo una vita passata a fare il commediante, ad essere altro, ad interpretare storie non sue. Per lui, ormai anziano, è giunto il momento di impadronirsi di un ruolo autentico, che lo ponga in un onesto rapporto con se stesso e con il mondo: un rapporto che si scopre del tutto confacente a quello scenario, ossia improntato alla diffidenza, al distacco, alla tendenza a scolpire nel marmo i torti subiti, facendone i segnavia di un percorso solitario, alle prese col nulla. Aydin dedica tutto il suo tempo ad un libro che non ha ancora iniziato a scrivere. Intanto lascia che i suoi affari siano gestiti da altri, e che la sua giovane moglie Nihal, a sua insaputa, decida di incamminarsi per la propria strada, senza più badargli. Con Necla, sua sorella, il dialogo è faticoso, teso, inconcludente. Nessuno è in grado di reggere la sua rigidità di giudizio, unita ad un’autoreferenzialità che lo esclude dal confronto con la realtà. Aydin è il muro che respinge ogni tentativo di toccarlo, di scalfirne la superficie, per dargli un colore, per imprimervi un segno. È la grande parete che genera l’eco, trasformando le idee, i desideri, le paure dei suoi simili in un rimbombo che le rende impetuose, autorevoli, degne di essere ricordate. Facendosi suono, l’emozione si impossessa dello spazio, si spoglia degli accenti individuali, diventa enunciato filosofico. Rimanendo inascoltata, o almeno non corrisposta, si solleva a mezz’aria e finisce per dominare la scena, come un concetto perentorio, che non ammette contraddizione.   In questo film, di impianto prettamente teatrale, i dialoghi sono lunghi - e spesso estenuanti - rimbalzi di parole che non giungono a sedimentarsi nell’animo. Parlarsi è solo un modo per mettere a nudo il durissimo contrasto tra la propria inquietudine interiore e la fissità dell’ambiente: un paesaggio tappezzato di figure estranee, profondamente diverse tra loro, a volte indecifrabili, che si direbbero messe lì a rappresentare l’impossibilità di crescere e cambiare interagendo col prossimo. Forse la soluzione è proprio astenersi da ogni reazione: subire e tacere. Resistere passivamente alle offese, alle disgrazie, a tutto ciò che, comunque, si sottrae al nostro potere. Necla lo dice, Aydin, in fondo, ne è convinto: è quello il principio ispiratore del suo atteggiamento, restio ad abbandonare abitudini e certezze,  ancorato ai riti della sua monacale quotidianità. Di fronte alla sua ottusa solidità, nessuno risulta grado di pentirsi, di ritornare sui propri passi, di rompere i soliti schemi. Il piccolo Ilyas proprio non ce la fa a baciargli la mano e chiedergli scusa. E nemmeno Necla, che pure si sente oppressa e abbandonata, riesce a trovare il coraggio di scappare, di tornare in città, di tentare di recuperare il rapporto col suo ex marito. L’ineluttabilità è una forza sovrana, che imprigiona tutti, e che ferisce a morte chiunque cerchi di opporvisi. Aydin ne è l’ottusa incarnazione, oltre che, certamente, la principale vittima. Nuri Bilge Ceylan lo ritrae con la stessa ostinazione, non risparmiando a noi nessun passaggio del suo coriaceo, tortuoso  modo di elaborare le situazioni, ed aderendo in tutto e per tutto all’arida inamovibilità della sua identità morale: una inflessibilità letterariamente declinata in lentezza, con una prolissità verbale da nouvelle vague che, però, gira a vuoto solo per eludere l’analisi, e utilizza il dubbio unicamente come pretesto per evitare l’approfondimento.

 

Questo film ha concorso, per la Turchia, agli Academy Awards 2015. 

 

Haluk Bilginer

Il regno d'inverno - Winter Sleep (2014): Haluk Bilginer

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