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Sinbad il marinaio

Regia di Richard Wallace vedi scheda film

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La recensione su Sinbad il marinaio

di scandoniano
9 stelle

Douglas Fairbanks interpreta uno tra i pirati più famosi del cinema, nell’ennesima (forse più famosa) trasposizione per il grande schermo dei viaggi (questo è l’ottavo) di Sinbad, eroe dei sette mari. Film avvincente e affascinante, testimone di un’epoca.

Alla ricerca del tesoro di Alessandro il Macedone, Sinbad il marinaio, nel suo ottavo viaggio (tratto dalle storie de “Le mille e una notte”) si imbatte in un avido emiro, in una bellissima donna e in un ambiguo parrucchiere di bordo. Con un vascello di cui entra in possesso quasi per caso, e con il fedele Abbu al seguito, Sinbad cerca l’isola di Delia Bar.

 

Quando il genere avventura non aveva così tanti sottogeneri che, col tempo, hanno finito per toglierlo d i mezzo, bastava la sapienza registica di uno come Richard Wallace, un ottimo soggetto e le interpretazioni carismatiche del divo Douglas Fairbanks jr. e degli altri protagonisti, per consegnare ai posteri un film straordinariamente avvincente. “Sinbad il marinaio”, nella versione di Wallace datata 1947, è uno dei film d’avventura dell’epoca classica più famosi (in cui lo sfavillante Technicolor fa la sua parte). Splendidi i costumi e le musiche, molto meno le scenografie, forse appesantite dai 70 anni d’età, che ne palesano l’essenza artificiale, rendendo il tutto meno credibile. Tuttavia il fascino vintage non è soggiogato dall’allestimento farlocco. “Sinbad il marinaio” è la testimonianza di un tempo.

 

 

Il protagonista, il divo assoluto Douglas Fairbanks jr. interpreta il protagonista, un marinaio cialtrone ma di buoni sentimenti, con un fascino inarrestabile ed una leggiadria che lo fa muovere (retaggio del muto) come se nell’aria librasse perennemente una musica di sottofondo. La recitazione di Fairbanks è pomposa, figlia dell’epoca del muto, forse stantia persino per lo spettatore del 1947. Un Gene Kelly fuori dal musical: ogni battuta, o spostamento, è compiuto con la grazia di un ballerino di danza classica. Accanto al divo c’è George Tobias, che interpreta Abbu, quello buffo e un po’ pavido, ruolo che sottolinea l’importanza della spalla che funge da contraltare atto a stemperare l’austerità delle scene. In epoca di gangster movie, molto valorizzata la figura della femme fatale, interpretata egregiamente da Maureen O’Hara, inaffidabile, sempre in bilico tra Sinbad e l’antagonista Emir (Antony Queen). Ma non è l’unico personaggio sordido, dedito al doppiogioco, la figura di Melik, interpretato da Walter Slezak, è ancor più ambigua (da tutti i punti di vista) perché smaccatamente cupida, variabile fondamentale per risvolti narrativi imprevedibili.

Il film fonda la sua magia sulla mitologia della storia, ma soprattutto sul carisma dagli interpreti, producendosi in un lungo finale in cui si scoprono una caterva di altarini e che, nonostante un messaggio sostanzialmente moralistico (che è tuttavia figlia di un soggetto splendido ma nato in altra epoca), regala allo spettatore una pellicola memorabile.

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