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Selfless

Regia di Tarsem Singh vedi scheda film

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La recensione su Selfless

di alan smithee
6 stelle

 

RENAISSANCE (SELFLESS)

Scritto da David ed Alex Pastor, e diretto dal Tarsem Singh che aveva creato illusioni di alta levatura col visionario accattivante The Cell, franando col troppo ambizioso ma mortalmente noioso The Fall, rimanendo inerte con lo storico e retorico Immortals, riprendendosi solo di poco col curioso Biancaneve, SELFLESS è uno sci-fi accattivante che ci parla di morte e risurrezione in corpi diversi, ossia di uno strumento per soli ricchi per vincere la caducità e l’imperfezione dell’organismo umano, sostituendolo con un altro, più sano e giovane, in cui proseguire a vivere. E’ ciò che gira in testa ad un potente miliardario, magnate della finanza (Ben Kingsley quando fa l’avido e il potente è spesso, come in questo caso, perfetto), minato da un cancro che non gli lascia alcuna speranza di sopravvivenza.

Per questo motivo cede alle lusinghe di una misteriosa equipe di medici d’avanguardia, che gli propongono di trasferire la sua personalità, la sua anima, in un corpo nuovo, perfetto: un ammasso di carne che, gli assicura il capo dell’equipe, è un vero e proprio organismo di cellule creato artificialmente, come guscio perfetto per custodire una personalità preziosa come quella del morente.

Ovviamente l’esperimento riesce, ma si porta dietro strascichi inquietanti, dove il nuovo corpo comincia ad avere visioni o ricordi di fatti e situazioni che si ispirano a ricordi di vita vissuta in precedenza, facendo avanzare dunque al nuovo essere dubbi sul fatto che il corpo utilizzato fosse in realtà qualcosa di creato in laboratorio, e non di vite umane estorte e piegate a sostituirne altre di clientela facoltosa con mire di immortalità.

Ryan Reynolds, nel ruolo del guscio umano che tale non è, ruba a Kingsley oltre ¾ di pellicola e il film si dispiega ed organizza come un thriller dai risvolti sentimentali che si lascia seguire con un minimo di attenzione.

Nulla di particolarmente travolgente, a conferma della medietà di un regista a suo tempo eccessivamente montato.

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