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Cub - Piccole prede

Regia di Jonas Govaerts vedi scheda film

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La recensione su Cub - Piccole prede

di scapigliato
9 stelle

Animalesco e spregiudicato, Cub è un racconto nero archetipale di rara perfezione. Il regista belga, Jonas Govaerts, che debutta con tutti gli onori, attinge da un immaginario horror ancestrale, ben radicato nel folklore europeo e sviluppa la sua macabra favola guardando con un occhio a Wes Craven e alla sua particolare idea di teen horror, e con l’altro occhio all’estetica contemporanea del racconto del terrore.

Basterebbe elencare a casaccio tutti gli elementi archetipali di cui si compone l’opera per leggerne la grandezza e l’impostazione classica: il bosco, la soglia e il suo guardiano, il lupo mannaro, la tana del bianconiglio, la discesa agli inferi, la nudità, il fauno, la notte, la luna piena, la caverna dell’orco, la pubertà, la femmina, l’animale, Cassandra, la trasgressione, il corpo massacrato e così via.

Uno degli elementi fondamentali per la lettura del racconto nero di Jonas Govaerts è l’identità del gruppo dei personaggi. L’organizzazione scout com’è noto è fondata sulla struttura militare. Fortemente gerarchizzata, si presta a nonnismo, bullismo, sete di dominio e anche abusi su minori o incapaci, come la cronaca insegna. In questa struttura viene saggiamente inserito il sistema dei personaggi di Cub.

I “cuccioli” che il regista belga manda al massacro sono per lo più dei piccoli bulli che recitano la parte dei bravi lupetti solo per etichetta. Arroganti, sbruffoni e viscidi, sono l’esatta copia dei loro leader che, nel classico delirio di onnipotenza si lasciano andare in sordidezze e viscidità tipiche dell’ambiente militare. La parola inglese scout significa appunto ricognitore, esploratore. Pertanto radica il movimento nella concezione marziale della vita e della società.

Anche la religione, una delle fondamenta dello scautismo nato agli inizi del novecento su intuizione del britannico Sir Robert Baden-Powell, funziona da ornamento: il rituale religioso conferma la falsità dello stesso. Basato inoltre sul più che saggio hébertismo – “forma di allenamento focalizzata sull’ottenimento di uno sviluppo fisico completo attraverso un ritorno ragionato alle condizioni naturali di vita” come arrampicata, corsa, equilibrismo, lotta, salto, nuoto, etc. – lo scouting nasce con intenzioni educative informali e ruspanti, per poi finire stritolato dalle ideologie conservatrici che ne hanno in seguito costellato gioie e dolori. Quale forma di aggregazione giovanile migliore di questa per raccontare una favola nera dove i rapporti di forza spingono l’azione verso la tragedia e dove le cose non sono sempre quello che sembrano?

Jonas Govaerts non vuole salvare nessuno dalla sua carneficina. Se la violenza sui bambini e sugli animali è da sempre un tabù intoccabile, il regista riesce a mollare il freno inibitorio senza scadere nel disturbante grazie all’estetica craveniana che segue con molta intelligenza. Ecco che gli archetipi prima menzionati compongono a livello narrativo i nuclei tematici e i motivi di tale carneficina e a livello iconografico compongono lo scenario più adatto alla stessa.

Il gruppo di scout viaggia su un camioncino militare, così come militare è il comportamento rigido e brutale degli “educatori” e quello bullista di alcuni ragazzi. Arrivati in prossimità del bosco vengono messi in guardia dal guardiano della soglia – qui una coppia di ignoranti fratelli bifolchi e zarri rurali vestiti in tuta come mafiosi slavi. Continuano il viaggio e superato un fiumiciattolo, la soglia, entrano definitivamente nel terrore. Avvisaglie e avvertimenti vari segnalano la presenza di qualcosa di misterioso che sa molto di antico e ancestrale: è Kia, o così credono si chiami il ragazzo selvaggio che vive nel bosco e che nelle notti di luna piena si trasforma in lupo mannaro. La figura del fauno, inversione malefica e libidica del buon selvaggio rousseauiano, è quindi il trait d’union tra il mondo civile a cui appartengono gli scout e il mondo selvatico, la wilderness misteriosa a cui appartiene l’Ombra, il trickster inquietate, il Calibano dei loro incubi.

Successivamente si sviluppa una certa empatia tra il protagonista, lo schivo Sam, il cui passato violento non ci viene saggiamente raccontato, e il fauno mascherato con corteccia di albero, che per il giovane scout è Kia, il ragazzo lupo che ruba dalle loro tende cibo, dolci, coltellini e numeri di playboy per masturbarsi nel pineto. Questa strana amicizia condurrà il problematico preadolescente a partecipare al linciaggio del cane di uno dei suoi responsabili, provando così anche l’ebrezza della morte inferta, del dominio sulla vita, schiarendo i dubbi sul mito ancestrale della morte stessa. Il gesto provocherà conseguenze disastrose.

L’orco uscirà dalla sua caverna a caccia dei ragazzini. Il protagonista, scovata la tana del bianconiglio, ricavata nel cofano di un’auto abbandonata che porta in un altro mondo, sotterraneo ed infero, vi entra e vi scende eroico per incontrarsi con la mostruosità. Nessuno gli credeva ed ora tutti ne pagheranno le conseguenze.

Non è un caso che si accenni al lupo mannaro e alla trasformazione licantropica. Maschera classica della dualità umana di bene e male, il “rinselvatichimento” è la chiave di lettura per saper interpretare il tema del doppio in questo racconto nero di formazione. Doppelgänger e Bildungsroman si intrecciano per dar vita a una mostruosità sàtira che nel puer aeternus trova la miglior mascherazione del diavolo nel mondo dei vivi.

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