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Lo sciacallo

Regia di Dan Gilroy vedi scheda film

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La recensione su Lo sciacallo

di Peppe Comune
7 stelle

Leo Bloom (Jane Gyllenhaal) è un ladruncolo ordinario che cerca di guadagnare qualche soldo rubando rame e tombini. Ma nella Los Angeles notturna succedono incidenti stradali, sparatorie, incendi e scorribande di malavitosi che attentano alla sicurezza dei quartieri benestanti, tutte cose che producono l’apoteosi della violenza cittadina. La televisione ha tutto l’interesse a metterla in onda questa violenza, e a pagare bene chiunque le porti le immagini giuste catturate sui luoghi delle tragedie. Leo Bloom scopre così l’utilità di fare soldi trasformandosi in un rapace della notizia da prime-time. Compra una videocamera digitale  e si mette a girare di notte rimanendo sintonizzato sulle frequenze della polizia stradale. É un neofita del mestiere di freelancer, ma subito impara le regole non scritte di un’attività che non conosce regole. É aiutato nella sua ascesa da Nina (Rene Russo), la responsabile di un network televisivo locale a cui ha venduto i suoi primi filmati. La donna intuisce subito che la scaltrezza spudorata di Leo gli potrebbe tornare utile, e si affida a lui per accrescere l’audience della rete. Leo non la deluderà, mostrando sempre più spregiudicatezza nel concepire il lavoro che fa.  

 

Jake Gyllenhaal

Lo sciacallo (2014): Jake Gyllenhaal

   

“Lo sciacallo” di Dan Gilroy è un film che si muove sul confine tra le vita e la morte, in uno spazio anaffettivo dove i momenti sanguinolenti rubati dalla telecamera agli ultimi scampoli di un’esistenza, valgono molto di più della pietà che si dovrebbe avere per una vita spezzata. É il classico film che dimostra come il cinema possa essere, nello stesso tempo, un sano strumento di evasione ed un utile momento di riflessione. Detto altrimenti, la messinscena, che investe tutto su un’estetica digitalizzata, un ritmo allineato alla velocità delle auto in corsa e su dialoghi taglienti carichi di sottotesti ambigui, può attrarre l’attenzione di un vasto pubblico indipendentemente dalle riflessioni che può indurre a fare sul mondo dei media. Se tutto è portato ad un tale eccesso narrativo da poter risultare inverosimile, quello che rimane realistica è l’insensibilità calcolata che alberga in un network televisivo, che ha la necessità di fare ascolti e vive con l’urgenza perenne di usare ogni mezzo pur di farne sempre di più alti. Un luogo dove la costruzione per immagini di un qualsiasi evento viene fatta in un modo da veicolare l’attenzione del telespettatore dove meglio si vuole. Le persone morte in un incidente diventano solo un prodotto mercificabile nel mercato asettico della televisione, lo strumento attraverso cui sublimare in un servizio del telegiornale le capacità affabulatorie delle immagini. In quel particolare spazio, non interessa che a morire siano degli esseri umani, ma che la morte sia l’oggetto principale di servizi televisivi portati al limite estremo del realismo splatter. Non esistono regole nella jungla notturna, se non quella di arrivare prima degli altri ed andare sempre più in fretta, perché, quanto più si anticipano i tempi tanto più è possibile entrare dentro la notizia facendola diventare virale. É proprio questa tempistica l’elemento centrale messo in chiara evidenza dal film, il fatto che, perseguendo tale modalità di comportamento per delle finalità esclusivamente utilitaristiche, si finisce per dare più importanza, non tanto alla possibilità di dare prima degli altri una notizia, ma alla necessità di doverla creare. Leo Bloom incarna alla perfezione questa tendenza a far coincidere la notizia da dare con quella da dover dare, chi trova la notizia con chi la crea. Un giornalista freelancer molto sui generis, che aderisce al rampantismo amorale che alligna nel mondo dei media con cinica spavalderia (il suo motto lavorativo è “Se mi vedi vuol dire che non è la tua giornata fortunata”). Viene dalla strada, è uno scarto della società ma è molto ambizioso e convinto di se. Leo Bloom porta fino al limite estremo il concetto che una buona comunicazione rappresenta la chiave del successo. Ma una buona comunicazione non dipende dai contenuti che esprime, ma da come vengono mostrati, così come, non importa quello che dici, ma come lo dici e chi lo dice. Saper veicolare un messaggio fino alla meta desiderata significa saper creare un caso intorno ad un evento e fare di questo evento l’elemento catalizzatore che spinge il teleutente a volerne sapere di più. “I nostri telespettatori sono più interessati alla criminalità che si insinua nei quartieri bene. Il che significa che la vittima, o le vittime, devono essere bianchi, benestanti e feriti per mano di minoranze o di poveri”. Questo dice Nina a Leo Bloom durante il loro primo incontro, parole che fanno emergere, da un lato, lo sfondo di un paese attaccato morbosamente ai contenuti televisivi, una popolazione educata al voyeurismo truculento, dall’altro lato, l’attitudine dei media ad indirizzare a comando i gusti del teleutente. Si mistifica la realtà dei fatti, si spogliano i sentimenti della loro più verace autenticità, si svuota il senso effettivo delle parole, tutto in nome e per conto di un audience concepito come un totem sacro da venerare ad ogni costo. Da qui ne deriva un corto circuito tra realtà e finzione dove ad emergere prepotente è un aspetto fondamentale legato ai media : non è vero che la televisione trasmette quello che il telespettatore vuole, ma che il telespettatore vuole proprio quello che la televisione trasmette. Si specula sugli istinti più bassi che albergano nel genere umano, trasformando la parzialità di un punto di vista in una verità generalmente sentita. Le “persone per bene” hanno paura di vivere sotto assedio, ma si sentono rassicurate dalla partigianeria assunta dai media che li fanno sentire come quella parte del disegno sociale la cui posizione va difesa più di ogni altra. Ci sono persone la cui morte non fa notizia perché la si ritiene facilmente sacrificabile sull’altare della quiete sociale da preservare, altre, invece, sacrificano una quota della propria idea di sicurezza per sentirsi meglio protette nella grancassa mediatica che vive e specula sulla percezione di insicurezza che sa generare. Il medium va oltre le sue specifiche competenze ontologiche, prende una posizione precisa veicolando a proprio piacimento l’andamento dei fatti. Confonde, fino a non distinguere più, realtà e verità. Agisce, quindi, seguendo una sottrazione coatta, negando validità alla necessaria parzialità di un punto di vista particolare (quello catturato dalla macchina da presa) per conferire verità assoluta alle immagini che veicolano significati.

Ecco, sarà anche eccessivo e furbescamente spettacolare, ma “Lo sciacallo” rimane un film che mostra senza veli delle verità scomode che esistono dietro le quinte di un qualsiasi studio televisivo.  

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